Se qualcosa di buono possiamo trovare fra le macerie lasciate dal coronavirus, è forse l’occasione per discutere del futuro di Venezia con occhi diversi.
Abbiamo la possibilità di metterci a tavolino partendo quasi da zero, elaborando nuove idee e nuove opportunità, nuovi schemi, nuovi paradigmi urbanistici, economici e sociali.
Possiamo ridisegnare, come davanti a un foglio bianco, i modelli che finora hanno tratteggiato la storia recente della nostra città.
È un esercizio che ci siamo permessi di fare raccogliendo le risposte di molti cittadini, anche acquisiti o d’elezione. Partendo dal Primo Cittadino e cercando di sondare tutti gli ambiti di questa grande realtà che, come sempre, e sempre più spesso in questi ultimi mesi, si asciuga le lacrime, si rimbocca le maniche e si rimette al lavoro.
Da oggi, un intervento al giorno per 10 giorni, pubblicheremo i contributi di quanti hanno condiviso con Metropolitano.it idee e suggestioni, immaginando con noi le prospettive e il futuro di una città che si reinventa.
«Il grande interrogativo è: dovremo realmente convivere con il virus (o un altro a venire) o questa rimane un’ipotesi improbabile? Si può rispondere solo in termini generali. La società contemporanea dovrebbe avere la capacità di prevedere reazioni a possibili catastrofi naturali o sanitarie.
Si tratta di un’annosa questione. Per l’Italia, se si pensa a quanti terremoti abbiamo dovuto subire, e quanto poco siano state realizzate condizioni di prevenzione e modalità di ricostruzione, la risposta sarebbe scoraggiante. Inoltre, se si analizzano gli scarsi investimenti per l’antisismico, per la sanità (parlo di infrastrutture degne di affrontare non solo il presente, ma appunto crisi globali come il Covid19), ma ancor più in generale per la ricerca, che non hanno messo al sicuro la popolazione non solo da imprevisti, ma anche dalle crisi che già conosciamo (penso anche per Venezia all’acqua alta), sono evidenti i gravi ritardi di cui siamo, come Paese, responsabili. Quindi per me convivere con il virus non significa pensare solo alle misure già in atto (distanziamento, monitoraggio, attrezzature mediche atte a combattere il ritorno del virus), ma significa pianificare e investire in un sistema nazionale che sia pronto ad affrontare quanto già conosciamo, e significa avere basi infrastrutturali e professionali che non ci facciano trovare completamente impreparati per quello che ancora non conosciamo. Senza sottovalutare quanto di buono è stato comunque fatto, per esempio in termini di protezione civile.
Il dibattito su una Venezia capace di assorbire un turismo non cannibale o fondamentalmente mordi e fuggi, ma che non diventi nemmeno luogo solo per le élites privilegiate, è in corso da molto tempo. Questa crisi accelererà certamente la riflessione. Per quanto riguarda la cultura, penso si debba trasformare l’attività di istituzioni internazionali e prestigiose come la Biennale in un lavoro permanente, che oltre a produrre le sue storiche mostre (Arte Architettura Cinema Danza Musica Teatro) superi i confini dell’evento, spezzando la catena di una data di inaugurazione e una di chiusura, per aprirsi a un “laboratorio” permanente dell’eccellenza della ricerca nelle arti contemporanee, aperto a tutti coloro che possono e devono trovare in Venezia il luogo perfetto per lo sviluppo di questa ricerca. Quando, con uno slogan, dico che la Biennale deve diventare la DAVOS delle arti, voglio dire che anche attraverso collaborazioni con istituzioni analoghe, mondo universitario, istituti di formazione etc etc, si devono trovare i fondi necessari per residenze, formazione, convegni, pubblicazioni a favore di tutto il mondo della cultura.
Le Biennali del 2020 devono affrontare problemi gravissimi (come molti altri settori strategici quali il turismo), economici, organizzativi e di partecipazione. Per questo penso che tutto quello che si potrà fare quest’anno non dovrà essere giudicato dai risultati concreti (partecipanti, pubblico, biglietti venduti), ma dalla capacità di trovare soluzioni e proposte che migliorino, una volta finita la crisi, l’efficienza e l’impatto internazionale delle Mostre dei prossimi anni».