Non c’è solo la temuta variante inglese, già presente, sia in Italia che in Veneto, in circa un paziente su cinque colpito dal Covid-19. Una variante che, per la sua maggiore capacità di infettare, secondo le previsioni di alcuni esperti, diventerà prevalente già a marzo.
Sono oltre 12 mila le mutazioni del coronavirus intervenute nel mondo da inizio pandemia.
Così ci sono anche la variante sudafricana, quella brasiliana, due varianti “venete” una “italiana” e, la più recente, quella “milanese”.
Ma non c’è da sorprendersi.
Il Covid, un virus che muta
“Tutti i virus a rna, come il Sars-Cov-2, mutano per loro natura”, ricorda Serena Delbue, professore associato di microbiologia del dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Milano e componente dell’équipe di ricercatori coordinati da Pasquale Ferrante che ha identificato l’ultima variante, la prima tra quelle codificate che non è intervenuta sulla proteina “spike”.
E non c’è dunque nemmeno da avere particolari preoccupazioni legate al semplice fatto dell’intervenuta mutazione. Sono solo alcune delle tante forme assunte dal coronavirus dall’inizio della pandemia a presentarsi più aggressive o in grado di diffondersi più velocemente. Ma la variante potrebbe anche essere ininfluente o, addirittura, rendere meno pericoloso il virus.
Varianti e vaccini
“Per i coronavirus, si può riscontrare una mutazione ogni 10 mila paia di basi – spiega la microbiologa Serena Delbue-E, in ogni caso, possiamo dire di conoscere pochissimo il Sars-Cov-2 perché, in questo senso, 12 mesi sono pochissimi. La principale preoccupazione sulla variante inglese – sottolinea – è che il vaccino possa avere un effetto inferiore e che quindi le persone che si sono già infettate possano reinfettarsi. Così come si teme che il virus possa diffondersi più velocemente tra la popolazione. Ma non ci sono ancora conferme. Anzi, le prime indicazioni sembrano dire che le varianti identificate non influiscano sull’efficacia dei vaccini. Forse solo la sudafricana potrebbe sfuggire più velocemente a quello di AstraZeneca”.
La variante milanese
La riflessione sulla cosiddetta “variante milanese” parte dunque proprio da qui.
“La mutazione che abbiamo identificato – riprende Delbue – riguarda una proteina accessoria e non strutturale del virus. E il punto in cui interviene la variante non è indifferente. L’abbiamo allora studiata dal punto di vista della risposta anticorpale e possiamo dire che non ne derivano conseguenze per la riposta dei vaccini e per la stessa risposta attivata dall’organismo. In un breve esperimento che abbiamo effettuato, abbiamo riscontrato che gli anticorpi sono efficaci su coloro che si sono già infettati”.
Sul fatto che questa variante aumenti o diminuisca la risposta immunitaria, invece, gli esperimenti di laboratorio da parte dell’équipe milanese sono in corso da alcuni mesi e proseguono per verificarlo.
“Ancora non possiamo saperlo – fa il punto la ricercatrice – perché dobbiamo approfondire la conoscenza di come crescono le cellule e come infetta il virus”.
Lo studio
I primi risultati dello studio sono stati appena pubblicati dalla rivista Emerging Microbes & Infections. Si riferiscono a due casi di medici di una divisione-Covid di un ospedale di Milano verificatisi a marzo dello scorso anno.
Entrambi, un uomo di 51 anni e una donna di 48, sono guariti: nel primo caso dopo ricovero e nel secondo dopo isolamento domiciliare. Lo studio precisa dunque che “la mutazione trovata non ha influenzato la protezione immunitaria dei pazienti” e che “la mutazione potrebbe derivare da un processo di variazione intraospite, che è un fenomeno comune nei coronavirus”. E, come conclusione secondaria, che “potremmo anche osservare che nei nostri pazienti una malattia più grave porta a titoli anticorpali più elevati, e inoltre che in entrambi i pazienti la risposta immunitaria contro il virus è aumentata nel tempo”.
La variante italiana
Quanto alla variante “italiana”, sarebbe presente nel nostro Paese già da agosto e potrebbe essere anche un precursore di quella “inglese”.
Le mutazioni, in questo caso, riguardano la proteina-spike, sia nella posizione riscontrata nella variante individuata per la prima volta in Gran Bretagna, sia un una seconda posizione. Anche in questo caso, comunque, sembra che non ne derivino conseguenze sull’efficacia dei vaccini, anche se gli studi in merito continuano.
Alberto Minazzi