Per la maggior parte degli italiani, di fronte al problema Covid-19 l’interrogativo è ora concentrato sulla terza dose.
“E’ assolutamente da fare”, chiosa il responsabile dell’area di ricerca di Immunologia dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma Lorenzo Moretta.
Che possa garantire una immunizzazione per 5 o 10 anni, come ha dichiarato il membro del Cts Sergio Abrignani, è “probabile, verosimile, ma ancora da vedere, perché ancora non abbiamo riscontri sperimentali”, chiarisce l’immunologo, però non c’è dubbio sul fatto che le risposte all’antigene memorizzate dal nostro corpo siano più intense, rapide e volte alla sua eliminazione.
La memoria immunitaria
Il concetto di partenza, per valutare l’efficacia del vaccino, è quello di “memoria immunitaria”, che garantisce una maggior resistenza al virus e che è contenuta nei linfociti T e B.
“Questa – ricorda Moretta – è dovuta al fatto che il numero di cellule in grado di vedere un determinato antigene, in questo caso la proteina Spike del virus Sars-CoV-2, aumenta di molto. Normalmente abbiamo poche cellule di questo tipo: memoria immunitaria significa che non solo si può registrarne un aumento notevole subito dopo la somministrazione del vaccino, ma anche che ce ne restano sempre più di prima anche quando cominciano ad arretrare. E si tratta in ogni caso di cellule molto più reattive, con una soglia di stimolabilità molto più bassa rispetto a quelle base”.
“È ben noto – sottolinea il medico – che i richiami aumentano questo tipo di risposta”.
Cellule-memoria e anticorpi
Con termini più scientifici, il ragionamento va fatto all’interno dell’ambito di una immunità adattativa o specifica, che coinvolge i linfociti “B” e “T” e le plasmacellule, vere e proprie fabbriche di anticorpi, derivate dai linfociti “B”.
“Gli anticorpi sono una spia importante, pur dimezzandosi già dopo un mese e progressivamente sempre più, restando pochissimi dopo 6 o 7 mesi. Ma questo non significa che il nostro organismo perda la memoria immunitaria – spiega Moretta -perché le cellule da cui deriva rimangono spesso addirittura per molti anni, senza che sia possibile una codificazione generica precisa, perché le cose variano a seconda di antigeni, virus e batteri”.
Il richiamo e la memoria immunitaria
Ecco perché la terza dose è “molto importante”.
“Il richiamo – spiega – dà un aumento netto di anticorpi in tempi brevissimi: in molti casi in sole 48 ore. E sono anticorpi utili perché bloccano la proteina spike e impediscono al virus di entrare nelle cellule. Ma anche quando intervengono dopo l’infezione, riescono a bloccarla. È per questo stesso motivo che i vaccinati sviluppano infezioni asintomatiche o con malattia molto blanda: il prodotto delle cellule-memoria, cioè gli anticorpi, entrano in azione dopo 48 ore e contrastano l’infezione”.
Il vaccino e il long Covid dei bambini
In tal senso, il professor Moretta si dice favorevole alla vaccinazione contro il Covid anche agli under 12. “Personalmente – afferma – mi sembra fondamentale. Tanto più che, con la variante Delta, si vedono molti più giovani e bambini che si ammalano. È vero: la malattia che sviluppano, nella gran parte dei casi, è molto meno grave di quella degli adulti. Ma non dimentichiamo che chi si ammala può comunque avere problemi legati al cosiddetto “long Covid”, che al momento è ancora poco studiato. Per questo dico che come il vaccino ci ha salvato in passato, così farà anche stavolta”.
I tempi del richiamo
Una questione dibattuta, riguardo al richiamo booster, è quella dei tempi di somministrazione rispetto alla seconda dose, consigliati al momento in 6 mesi per le prime categorie, anziani e fragili, ammesse alla somministrazione. “Io – commenta con un sorriso Lorenzo Moretta – sono anziano e l’ho fatta dopo 12 mesi. Battute a parte, è un problema legato alle disponibilità di vaccino e a decisioni politiche e tecniche, riguardo alle quali posso dire che, durante questa pandemia, mi sembra che i consigli del Cts siano stati abbastanza ascoltati. Direi comunque che è necessario mettere chiare regole di precedenza”. “Anche in questo caso – prosegue – non ci sono però ancora evidenze scientifiche approfondite. Personalmente, mi sembra che i 6 mesi per i fragili siano corretti, mentre per altri potrebbero andare bene anche più mesi, fino all’anno”.
Un vaccino che funziona
Quel che hanno detto fin qui i riscontri della campagna vaccinale, invece, è che i sieri più moderni, quelli a rna messaggero, funzionano. “Me l’aspettavo – commenta Moretta – e non solo perché c’erano da una decina d’anni studi sull’efficacia sugli animali che parlavano in tal senso. Mi sembra che sia stato adottato inoltre un approccio non pericoloso, scegliendo di somministrare solo una molecola che dà informazioni a varie cellule dell’organismo, comprese addirittura quelle muscolari, per costruire la proteina spike che il sistema immunitario riconosce come estranea. Non si sono cioè combinati tanti pasticci, come per altri vaccini con virus attenuati, che rischiavano di causare la malattia in alcuni soggetti immunocompromessi”.
Un vaccino modificabile
Un altro vantaggio che deriva dai vaccini realizzati con tecnologie all’avanguardia è la loro estrema elasticità. “L’rna che ne è alla base – illustra il medico – si può modificare in due o tre giorni in laboratorio. Anche qualora si presentassero future varianti, si può fare dunque molto presto per adattarlo. Dopo è chiaro che subentrano i tempi della produzione industriale, per cui il nuovo vaccino non sarebbe disponibile su larga scala dall’oggi al domani. In ogni caso, potendo perfezionare il prodotto in pochi giorni, questo sarebbe disponibile per una campagna vaccinale generale in massimo 4-6 mesi”.
La situazione epidemiologica
Per fortuna, al momento non si stanno prospettando nuove mutazioni particolarmente rischiose. E la situazione, per l’immunologo del Bambino Gesù, in Italia rimane ancora sotto controllo.
“Noi italiani – conclude – siamo stati tutto sommato abbastanza virtuosi, sia come vaccinazione che nel rispetto di alcune regole fondamentali, ed è per questo che andiamo meglio ad esempio di Austria o Germania. Non dimentichiamo però che anche un vaccinato, pur in forma asintomatica o per lo più blanda, può infettarsi e, con il virus che si ferma a livello di naso o gola, a sua volta infettare, sia pur meno di un non vaccinato. Per questo, non dobbiamo far venir meno distanziamenti e uso delle mascherine. Al riguardo, se fosse per me, renderei anzi obbligatorie le FFP2, perché le chirurgiche proteggono poco. Se insomma da noi va abbastanza bene, è chiaro che c’è sempre un rischio, per quanto ridotto, che si presentino nuove varianti non protette dai vaccini e che, trattandosi di una malattia planetaria, questa possa sempre rientrare dall’estero. È per questo che ripeto: più ci vacciniamo, meglio è per tutti”.
Alberto Minazzi
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