L’incidente in cui il piccolo Manuel ha perso la vita, falciato, nella city car guidata dalla mamma, da una Lamborghini, secondo gli inquirenti è stato causato da una challenge
Una famiglia piange il proprio figlioletto di appena cinque anni. Morto in un incidente d’auto per poche migliaia di like.
Un’altra famiglia non si dà pace: il proprio figlio, appena ventenne, era alla guida di quella Lamborghini presa a noleggio che ha tolto la vita a quel bambino.
Per qualche migliaia di like.
Per una challenge, una sfida lanciata su Youtube.
Una delle tante sfide estreme che vengono colte dai giovani e che li portano a compiere le azioni più assurde.
L’incidente di Casal Palocco, a Roma, porta alla ribalta un problema dei nostri tempi.
Quello, appunto, delle challenge, fenomeno alla cui base sta la viralità che video di azioni estreme producono in rete.
A confermare, in questo caso, l’ipotesi della sfida sarebbe un filmato di 15 secondi comparso online in cui uno dei giovani afferma: “Secondo giorno in Lamborghini, per adesso tutto bene”.
Per questo motivo, al vaglio del magistrato che sulla morte del piccolo Manuel Proietti ha aperto un fascicolo, ci sono anche le posizioni degli altri quattro ragazzi presenti nell’auto, ai quali potrebbe esser contestato il reato di concorso in omicidio.
Nell’impatto della Lamborghini con la city car in cui Manuel viaggiava, sono state ferite anche la mamma, Elena Uccello, di 28 anni e la sorella più piccola, di 3.
Le challenge
Ma cosa sono, da dove arrivano, come giungono ai giovani queste challenge? Perché sono sempre più frequenti e pericolose?
Dalla Blue whale alla Sex Roulette fino a quest’ultima, “Theborderline”, sono sfide estreme che mettono seriamente a rischio i giovani e chiunque, per coincidenza, caso o destino che dir si voglia, vi si trova sua malgrado implicato.
Sono un serio campanello d’allarme sul quale psicologi ed educatori si stanno interrogando monitorando il fenomeno.
Prima c’era stata la challenge, pare arrivata dall’Inghilterra, che incitava i giovani a fermare con qualsiasi scusa i passanti e piccharli, poi c’è stata la “blue whale”, la challlenge dei 50 giorni per 50 sfide estreme, come l’asfissia temporanea: un “gioco” arrivato dalla Russia che pare all’origine di ben 130 suicidi nel mondo tra i giovanissimi.
Poi, ancora, “La cicatrice francese”, una sorta di autolesionismo collettivo nel procurarsi conseguenze simili a quelle di una colluttazione tramite graffi, pressioni o anche sfregi.
Infine i selfie estremi dall’alto dei palazzi o sul ciglio dei burroni, la “Fire challenge,” la sfida con il fuoco portata a tal punto da procurarsi delle serie ustioni, quella della rissa generale innescata con una parola d’ordine in un momento qualsiasi, contro un coetaneo qualsiasi, senza una ragione qualsiasi.
L’ultima, in ordine di tempo questa della guida borderline e la Sex Roulette, anch’essa già finita in un faldone del dipartimento Soggetti Deboli della procura di Brescia.
La Sex Roulette
Consiste nel rischiare tutto, anche una gravidanza, facendo sesso non protetto, magari con sconosciuti.
Perde chi resta incinta e il più delle volte finisce con un aborto.
Sembra fantascienza, eppure, nonostante i casi in Italia per ora si contino sulle dita di una mano, la challenge corre sui gruppi Telegram e Whatsapp, tra genitori ignari delle sfide rivolte ai propri figli e minori che si rendono sempre più protagonisti di fenomeni preoccupanti.
Le prime segnalazioni relative alla Sex Roulette arrivano dalla Fondazione Carolina di Milano, dove professionisti esperti si dedicano non solo alla prevenzione e al supporto dei giovani spesso vittime di violenza online ma anche alla formazione di genitori e soggetti con responsabilità educativa e molto alla ricerca, in modo tale da anticipare fenomeni online che possono diventare pericolosi.
Alla base del fenomeno challenge, come evidenziato nel report dedicato dal centro studi della Fondazione alla “Cicatrice francese”, sembra esserci la viralità.
Non tanto e non solo perché i ragazzi aspirino alla notorietà in se’ ma per una loro ricerca di autoaffermazione e di un’identità che la rete assicura.
Come ciò che ha contraddistinto le azioni delle cosiddette “Baby Gang”: il web “conferma in questo modo i ragazzi della loro esistenza” portandoli ad alzare l’asticella delle sfide e creando emulazioni.
Non chiamiamole Baby Gang
Le stesse baby gang, si legge anche in un rapporto di Transcrime, centro di ricerca interuniversitario sulla criminalità transnazionale delle università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Alma Mater Studiorum di Bologna e dell’università degli Studi di Perugia, in realtà, nella maggior parte dei casi non sono tali perché raggruppano ragazzi “senza una finalità criminale definita”.
Agiscono in gruppo, bullizzano i più deboli o rubano.
Soprattutto, riprendono le loro azioni, che in rete diventano virali.
“Quando un tempo si faceva una stupidaggine – rileva l’educatore Zoppi – a coprire le malefatte del gruppo c’era chi faceva da palo. Oggi c’è invece il regista, che documenta tutto veicolandolo poi soprattutto nei canali Telegram”.
Un Pronto intervento Cyber
Come accaduto anche per i casi di Sex Roulette, che a Milano hanno coinvolto due ragazzine di nemmeno 15 anni.
“È anche questo un fenomeno, sia pur ora contenuto, che esiste e che mostra già le sue drammatiche conseguenze – conferma Zoppi, – In generale, comunque, è preoccupante il mondo delle challenge virtuali di per sé: dobbiamo seriamente chiederci cosa c’è dietro tutto questo. Il bisogno di questi ragazzi di mettersi in pericolo, di sentirsi vivi in questo modo. E il mondo degli adulti che non vede il loro disagio”.
La Fondazione ha attivato da tempo un “Pronto intervento cyber a tutela delle vittime, ma anche per il recupero dei bulli”.
Carolina Picchio, la giovanissima alla quale è intitolata la Fondazione voluta dal padre, Paolo Picchio, per evitare che altri giovani incorrano nel suo dramma , è stata una vittima della rete.
Aveva appena 14 anni nel 2013 quando, a una festa, persa coscienza perché si era ubriacata, è stata filmata mentre alcuni ragazzi mimavano atti sessuali sul suo corpo. Il video è stato poi condiviso nel web e Carolina non ha sopportato l’umiliazione derivata da quelle immagini ma, soprattutto, dai commenti e dagli insulti che ne sono seguiti. Si è suicidata, lasciando a una lettera la sua frustrazione. “E’ tutto qua il vostro bullismo? Spero ne sarete contenti. Le parole fanno più male delle botte”.
Vittime e bulli
Ma la Fondazione voluta dal papà di Carolina perché nessun’altra vittima della rete muoia per un tot di like, aiuta anche i bulli.
Perché sono l’altra faccia della medaglia.
“Nessuno nasce bullo -dice Ivano Zoppi -. Lo diventa per una serie di vissuti e va aiutato a rendersi conto di quello che ha fatto. C’è una deriva che è pericolosa e bisogna per questo lavorare sull’intero contesto educativo”.
La Fondazione si muove con molte iniziative sui territori. Una delle ultime è “Genitori in blue jeans”, che ha mosso i primi passi a Venezia raggiungendo poi Assisi, Napoli, Genova e, a settembre, Milano e Roma.
“C’è disattenzione e mancanza di informazioni complete sul mondo digitale da parte dei genitori – spiega l’educatore -. Noi incontriamo loro e gli insegnanti insieme ad alcuni referenti di Tik Tok perché è importante abbiano coscienza del fatto che se l’episodio drammatico resta un episodio, ciò che accade quotidianamente in rete può diventare pericoloso”.
Consuelo Terrin