Un sogno in uno scatto. C’è una bella storia di orgoglio e di soddisfazione personale, dietro la foto che Stefano Cazzaro ha inserito anche come prima immagine del proprio profilo Facebook.
Momenti che quello che è stato uno dei migliori arbitri italiani sta rivivendo con piacere in questi giorni, insieme ai tantissimi che si stanno appassionando su Netflix alla serie “The Last Dance”.
Ovvero il racconto in 10 puntate della stagione professionistica di basket americano NBA 1997/98.
L’ultimo della saga di una delle squadre più forti di sempre: i Chicago Bulls di Michael Jordan.
Anche il nostro, di racconto, non può allora che partire da quel momento. Da quel semplice gesto, del tutto usuale nel corso di una partita di pallacanestro, in cui un direttore di gara consegna il pallone a un giocatore per la rimessa in gioco. Un gesto, immortalato su una pellicola nel corso delle Olimpiadi di Barcelona 1992, che però assume una valenza del tutto particolare per i suoi protagonisti.
Un indimenticato arbitro veneziano e Michael Jordan. Cioè quello che, forse, è stato il più grande cestista della storia.
Com’è giusto che sia, anche la storia di quello scatto è tutt’altro che banale.
“Fui io stesso – racconta Stefano Cazzaro – a cercare di avere, a fine partita, quella foto. Era il match tra il Dream Team statunitense e i padroni di casa della Spagna e, prima della palla a due, mi misi d’accordo con una fotografa accreditata a bordo parquet.
Le chiesi, se ci fosse stata l’occasione, di scattarmi una foto nel momento in cui consegnavo la palla a uno dei grandissimi campioni americani. E lei riuscì a cogliere proprio quel momento con Michael Jordan, che resta indelebile nella mia memoria. Come d’accordo, in cambio, io le diedi una maglia dell’Italia”.
Un’instantanea che, 16 anni dopo, ha vissuto un altro momento fondamentale. “Nel 2008 – chiude il cerchio l’ex arbitro – grazie a un’amica, arbitro del campionato professionistico femminile americano WNBA, sono anche riuscito a farmela autografare dallo stesso Jordan in persona”.
NBA: un mondo allora inarrivabile
A quasi 30 anni di distanza, chi non ha vissuto quegli anni fa probabilmente fatica a immaginare cosa significasse l’NBA. Adesso il principale campionato professionistico di basket al mondo ha aperto le frontiere, al punto che l’ultimo “anello” (il titolo di campione) assegnato è andato a una squadra canadese (Toronto) composta da atleti provenienti da ogni angolo del globo. Ma allora no.
“Proprio vedendo la serie su Netflix – riprende Cazzaro – mi ha fatto piacere rivedere tanti personaggi del basket di quegli anni e riproiettarmi con la mente in quel periodo. Perché va detto che, nonostante fossi un arbitro del campionato di Serie A italiana e delle coppe europee, quei giocatori io stesso li conoscevo parzialmente. Non c’era infatti, allora, la stessa diffusione di immagini via satellite e i miti come Jordan, Pippen, Magic, Bird e compagnia si conoscevano solo attraverso i giornali, al massimo in qualche filmato su cassetta VHS. Di certo, quasi tutti noi europei non avevamo mai avuto l’occasione di vederli dal vivo”.
Il “Dream Team”: una squadra di divi
Avere a casa una foto con Michael Jordan, insomma, non è cosa da poco nemmeno per chi, in quelle Olimpiadi, ha avuto un ruolo attivo come un arbitro. “Le occasioni di contatto – ricorda Cazzaro – erano veramente nulle. Loro erano dei divi in assoluto, tant’è che non solo non vivevano con gli altri atleti nel Villaggio Olimpico. Ma, si dice, erano di stanza a Montecarlo e facevano la spola con Barcelona solo per le partite. Al palazzetto, poi, erano superprotetti, subito scortati da bodyguard appena finito l’incontro”.
A testimonianza di questo tipo di approccio, Cazzaro ricorda un altro aneddoto. “Tra gli arbitri dell’Olimpiade c’era anche il greco Kostas Rigas, che a 48 anni chiudeva la carriera. Fu l’unico, tramite Magic Johnson, ad avere un pallone autografato da parte di tutti i campioni del Dream Team. Ma, proprio mentre Magic glielo stava consegnando, la delegazione della squadra americana intervenne per sequestrarlo. Doveva essere infatti un regalo ufficiale e solo in tale forma, dopo 3 mesi, il pallone venne consegnato a Kostas”.
The last dance: campioni di basket e di correttezza
Non si deve però commettere l’errore di pensare ai campioni NBA del 1992 come a delle persone sopra le righe. “Al di là del fatto tecnico – prosegue Cazzaro – l’impressione principale che mi è rimasta di quei campioni è quella di una grandissima correttezza e del massimo rispetto dei ruoli, compreso quello dell’arbitro. Lo stesso pubblico aveva un’altra educazione, senza reazioni “europee” di fronte ad un fischio sbagliato: niente offese, poca pressione, al massimo qualche “buu” isolato. L’unico un po’ sopra le righe era Barkley, non a caso l’unico a essere sanzionato con un fallo tecnico per proteste. Ma anche questo era un cliché: era il suo “personaggio” e certi atteggiamenti li tirava fuori solo quando magari la tensione calava un po’, per ravvivare il clima”.
Perché, va detto, quella squadra americana era veramente imbattibile. “Solo in finale, la Croazia riuscì in parte a impegnare il Dream Team, ma gli Statunitensi alla fine vinsero comunque facilmente. Io ho avuto la fortuna di arbitrare la partita contro la Spagna padrona di casa, in cui c’erano giocatori espertissimi come San Epifanio. Ebbene: anche da parte di questi campioni europei c’era un vero timore reverenziale nei confronti dei giocatori americani. E io stesso, lo ammetto, ero un po’ emozionato. Ma, tecnicamente, arbitrare il Dream Team era molto più semplice che farlo in altre partite. E quindi sono stato altrettanto contento di aver diretto la semifinale tra Croazia e Csi, l’ex Unione Sovietica, perché era in pratica una specie di finale alle spalle dei “mostri sacri”. Tant’è che molti dei giocatori di quelle due Nazionali, poi, sono volati loro stessi oltre oceano, in NBA: da Petrovic a Kukoc, da Radja a Volkov”.
Dream Team: una squadra-spettacolo
Con l’oro al collo praticamente già prima di scendere in campo, i giocatori del Dream Team potevano dunque preoccuparsi soprattutto dello spettacolo. “Non avevano bisogno di giocare particolarmente forte, non cercavano i contatti come nell’NBA. E noi arbitri abbiamo cercato di far di tutto per lasciarli liberi di esprimersi liberamente in giocate incredibili, cui non eravamo abituati: schiacciate, tiri ad altissima percentuale, grandissima velocità di esecuzione in giocate di grande difficoltà. Penso a Pippen, Drexler, lo stesso coach Chuck Daly: un altro mondo, un altro basket”.
Eppure, ricorda Cazzaro, molti dei giocatori di quel Team USA si presentarono a Barcelona in condizioni non ottimali. “Ricordo che Larry Bird soffriva di mal di schiena al punto da dover stare steso a terra quando non era in campo, perché non poteva stare seduto in panchina. Lo stesso Stockton, si presentò al preolimpico di Portland con un dito rotto. E Magic Johnson era reduce dalla diagnosi di sieropositività all’HIV. Ma quelli dovevano essere i 12, anche per una serie di veti incrociati tra i singoli, e quelli furono”.
E poi va ricordata anche la grandissima intelligenza cestistica. “Se negli ultimi anni le norme si sono riavvicinate molto – sottolinea Cazzaro – allora il regolamento NBA e quello internazionale erano molto diversi e, per gli atleti del Dream Team, era una vera novità. Basti pensare all’infrazione di passi o all’obbligo di autoaccusarsi del fallo. Ma si adattarono subito”. Anche se, da veri professionisti, anche in partite già vinte ogni palla veniva giocata con la massima intensità. “Ricordo che lo spagnolo Jofresa riuscì, in un’azione, a superare proprio Michael Jordan in uno contro uno. Ebbene: arrivò subito il fallo, perché Jordan non poteva accettare di essere stato battuto nel confronto diretto con un avversario”.
I primi contatti col Dream Team
A Portland, Cazzaro arbitrò due partite del Team USA, contro Canada e Venezuela. “Due passerelle o poco più, ma comunque da tutto esaurito”, ricorda. Il grandissimo fascino di quella Nazionale statunitense è legato anche al fatto che, per la prima volta, dopo la figuraccia degli USA nel 1988, la NBA raggiunse l’accordo con FIBA e Comitato Olimpico per far partecipare alla competizione a cinque cerchi atleti professionisti del campionato di basket.
“A Portland c’era un grandissimo movimento di stampa internazionale e gli avversari erano emozionati, nonostante i 40 punti di media di scarto che il Dream Team, pur giocando con il freno a mano tirato, infliggeva a tutti gli avversari”.
Dalle Olimpiadi al successo
Paradossalmente, dunque, la carriera di Stefano Cazzaro come grande arbitro ha percorso un iter del tutto particolare, nel segno del Dream Team. “Di solito, l’Olimpiade è il coronamento di una carriera. Per me è stata l’apripista, la prima vera occasione per farmi conoscere in una manifestazione internazionale. Prima avevo arbitrato solo una finale di Coppa delle Coppe, poi arrivarono 4 Final Four, 2 Mondiali, 2 Europei”.
Dopo 28 anni, “The Last Dance” ha dunque contribuito a risvegliare nell’ex arbitro ricordi comunque mai sopiti. “Ricordo il nostro villaggio olimpico, adiacente ma separato da quello degli atleti, in un’area con appartamenti nuovissimi diventata subito dopo residenziale. Ricordo Dick Bavetta, il primo arbitro NBA a partecipare a una competizione internazionale: aveva 49 anni e, a testimonianza della sua bravura, ha arbitrato fino ai 70. Un piccolo rammarico è stato quello di partecipare alla cerimonia d’apertura solo da spettatore, ma il protocollo olimpico vuole così”.
Ricordi conservati nella testa, ma anche nel cassetto. Come la divisa del Coni, con la cravatta blu e granata, in omaggio alla città spagnola. Il completo consegnato dagli organizzatori agli arbitri (giacca rosso ciliegia e pantaloni bianco-rossi a righine) Cazzaro l’ha invece regalato al museo del basket. Ma gli resta soprattutto il più bel ricordo. Quello tanto desiderato. La foto con Michael Jordan.
Un bel articolo un grande arbitro e un’altro basket….complimenti permettetemi con l’occasione di ricordare un’ altro grande arbitro ed amico scomparso troppo presto Paolo Zanon…..
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