La teoria di un team internazionale guidato dalle Università di Padova e Modena dopo il ritrovamento di gastroliti nei resti fossili di un animale risalente al Cretaceo
Anche se a noi umani può sembrare un’abitudine insolita, sono diversi gli animali (da alcuni uccelli erbivori come gli struzzi, ai coccodrilli, alle foche), che ingeriscono deliberatamente pietre e altri sedimenti, inglobandoli poi nel tratto digestivo sotto forma di quelli che vengono definiti “gastroliti”.
Un’abitudine, la geofagia, che risale addirittura al tempo dei dinosauri e che può avere diverse finalità: dal favorire la digestione di piante dure, contribuendo a macinarle all’interno dello stomaco, alla regolazione e il bilanciamento del nuoto in alcuni animali acquatici, dagli attuali coccodrilli ai remoti plesiosauri.
Le pietre che nutrono
Finora, questo comportamento comune a tutti i principali gruppi di vertebrati era stato scarsamente osservato tra le tartarughe marine attuali e mai segnalato in esemplari fossili di questi animali.
In realtà, anche le tartarughe marine mangiano pietre, con finalità presumibilmente legate al ciclo riproduttivo.
E lo fanno da almeno 90 milioni di anni, come ha riscontrato un team internazionale di ricercatori coordinato dalle Università di Padova e Modena, condotto in collaborazione con esperti degli Atenei di Yale e Swansea e del museo di storia naturale di Bamberg, in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Plos One”.
Le tartarughe marine del Cretaceo mangiatrici di pietre
Per approfondire l’evoluzione delle abitudini alimentari delle tartarughe marine, il team ha coniugato competenze di paleontologia, biologia marina e fisiologia, applicandole all’analisi dei resti fossili di un grande esemplare affine ai protostegidi, gruppo di tartarughe esclusive del periodo del Cretaceo superiore, rinvenuto in una cava nei pressi di Sant’Anna d’Alfaedo e ora conservato al Teatro comunale della cittadina del Veronese.
All’interno dello scheletro della tartaruga, è stato notato un gruppo di 10 ciottoli ritenuti non appartenenti al sedimento del fondale marino dove è avvenuto il ritrovamento.
“Sono un chiaro esempio – spiega Luca Giusberti, professore di Paleontologia dell’Università di Padova – di clasti alloctoni, ossia originati in un contesto geologico diverso e trasportati successivamente nel deposito in cui vengono ritrovati”.
Quei sedimenti rimasti nello scheletro
“A volte i ciottoli provenienti dal continente – prosegue Giusberti – possono essere trasportati dalle radici di alberi galleggianti alla deriva. Ma trovarli all’interno di resti scheletrici di un animale marino suggerisce una spiegazione diversa”. Il team ha così ipotizzato che queste piccole pietre, più o meno tutte delle stesse dimensioni, potessero essere gastroliti, ingeriti dalla tartaruga e poi conservati nel suo tratto alimentare.
Le analisi morfometriche hanno confermato la natura dei ciottoli, dalle dimensioni e dalle forme arrotondate perfettamente in linea con altri gastroliti descritti in passato. Le pietre sono state quindi sottoposte a un ulteriore studio attraverso l’impiego di un microscopio elettronico, che ha permesso di definirne la composizione. Alcuni gastroliti sono risultati così formati da carbonato di calcio, altri da silice.
Il legame tra geofagia e gravidanza nelle tartarughe marine
Lo step successivo compiuto dai ricercatori, al fine della comprensione della funzione dei gastroliti nelle tartarughe marine, è stato quello di effettuare un’analisi comparativa tra i risultati ottenuti studiando il fossile e, in collaborazione con biologi marini specializzati, un nuovo esame dei contenuti dello stomaco delle tartarughe verdi raccolti in passato alle Seychelles, nei quali erano stati rinvenuti occasionalmente ciottoli di questo tipo.
Dal confronto è emerso un dato particolare, ritenuto sorprendente dagli studiosi: i pochi esemplari attuali di tartarughe che sono risultate aver ingerito sedimenti erano quasi esclusivamente femmine gravide. Questo ha dunque gettato una nuova luce sulle abitudini comportamentali riproduttive di questa specie, suggerendo fortemente l’esistenza di un nesso tra geofagia e produzione delle uova.
Un modo per reintegrare il calcio
“Al momento – approfondisce Giovanni Serafini, paleontologo dell’Università di Modena – la teoria più accreditata è che le femmine ingeriscano substrati rocciosi nel tentativo di supplementare il calcio usato nella formazione del guscio delle uova”. Il collegamento tra geofagia e fisiologia riproduttiva spiegherebbe anche la rarità dei gastroliti nelle tartarughe marine fossili, dovendo essere queste femmine, sessualmente mature e in stagione riproduttiva.
L’ipotesi potrebbe servire anche per definire il genere dell’esemplare fossile. Pur non potendo escludere la possibilità di un’ingestione accidentale o come sussidio alla digestione, un’ulteriore conferma deriverebbe dall’origine continentale dei 10 ciottoli. Durante la nidificazione, le tartarughe marine femmine del gruppo Chelonioidea, che comprende sia i protostegidi estinti che le attuali tartarughe marine, sono infatti solite visitare spiagge ed estuari.
Alberto Minazzi