Dagli studi del GPLab di Veritas a Venezia, risultati positivi su ulteriori nuove frontiere del riciclo per sostituire la plastica
Come si possono riciclare le montagne di alghe e piante marine spiaggiate?
Che i biopolimeri ricavati dalla “Posidonia oceanica” siano impiegabili per la produzione di borsette biodegradabili per la raccolta differenziata è abbastanza intuitivo.
Ma potrebbe sorprendere la possibilità di utilizzare questi depositi naturali, insieme ai materiali derivanti dalla fermentazione dei rifiuti organici, anche per realizzare tacchi per le scarpe, vasi o articoli destinati all’ambiente della spiaggia.
Invece si può. Lo dicono i risultati del progetto, finanziato con fondi europei Por-Fesr del Veneto e condotto già a partire dal 2019 al Green Propulsion Laboratory Veritas di Venezia, volto alla ricerca e sperimentazione di prodotti ad alto valore aggiunto e processi innovativi sviluppati da residui organici.
Grazie all’attività svolta in questi anni da un’associazione temporanea di 4 imprese, che ha coinvolto anche i centri di ricerca delle Università di Pisa e Ca’ Foscari di Venezia, è stato infatti realizzato il prototipo di un impianto-pilota che, una volta sviluppato, permetterà di produrre da fonti rinnovabili materiali sostenibili utilizzabili come sostituti degli inquinanti materiali plastici sintetici.
La Posidonia oceanica
In altri Paesi europei i residui vegetali, compresi gli egragopili costituiti dai residui fibrosi di piante acquatiche come la Posidonia, vengono già da tempo utilizzati come materiale fonoassorbente o isolante in edilizia.
In Italia, fino a maggio 2021, invece, le alghe spiaggiate sono state classificate come rifiuti speciali, richiedendo un apposito trattamento ed escludendo a priori il riuso.
Con la modifica di un articolo del Codice dell’Ambiente, si è però recentemente introdotta la possibilità di reimmettere in ambiente marino la Posidonia che si accumula sui litorali o, in alternativa, di riutilizzarla a fini agronomici o in sostituzione di materie prime all’interno dei cicli produttivi “mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente, né mettono in pericolo la salute umana”.
Tra gli obiettivi del “progetto ecopolimeri” c’è stato quindi anche quello di sviluppare processi innovativi per il trattamento di questa pianta acquatica (dalla cernita allo sminuzzamento delle fibre cellulosiche), che si spiaggia in grandi quantità lungo le coste italiane, con depositi che raggiungono anche alcuni metri d’altezza.
Basti pensare che il solo ecocentro di Chioggia ne raccoglie mediamente 3 mila kg ogni anno, dovendo poi sopportare anche elevati costi di smaltimento.
Dalle piante alle scarpe e altri oggetti
Questo rifiuto, una volta separato dalla sabbia, può però diventare una risorsa, all’interno di una filiera di economia circolare.
La Posidonia, infatti, è impiegabile come filler naturale in compositi a base di bioplastiche.
L’obiettivo cui ha mirato il progetto è stato allora quello della realizzazione di campionature di granuli plastici termoformabili ottenuti con processi biologici, utilizzando substrati organici.
Insieme ai test sulle nuove formulazioni di biopolimeri innovativi e fibre di scarto sono state così sviluppate e messe a punto su scala dimostrativa tecnologie che basano la produzione di polimeri plastici partendo dalla fermentazione del rifiuto organico.
Il biopolimero è infatti prodotto dal metabolismo di uno specifico batterio, il microorgamismo Ralstonia eutropha, nutrito con i composti di carbonio contenuti nei liquidi prodotti dalla fermentazione dei rifiuti organici.
I polimeri estratti dalle colture batteriche, chiamati tecnicamente poli-beta-idrossialcanoati, vengono utilizzati come base per la realizzazione dei poliesteri microbici, che vengono quindi miscelati con le fibre di Posidonia. Si arriva così alla produzione di granuli di ecopolimeri adatti alla produzione e di componenti strutturali utilizzabili in settori vari, dal calzaturiero al florovivaistico.
Sostenibilità ed economicità
L’inserimento della fibra della pianta acquatica nelle matrici, oltre a garantire una maggiore biodegradabilità, consente anche una sensibile riduzione di costo dei prodotti finali. Produrre una fonte di carbonio sostenibile dai rifiuti, da utilizzare per alimentare i microorganismi, riduce infatti di molto il costo rispetto ai prodotti ottenuti da colture pure.
E i risultati preliminari hanno dimostrato che, anche senza sterilizzazione, non ci sono evidenze di contaminazioni legate alla proliferazione di altri microorganismi della fermentazione.
Il prossimo passo, spiegano i ricercatori di Ca’ Foscari, sarà l’ottimizzazione del processo di fermentazione e di accumulo dei polimeri, per aumentare la produzione di substrato organico durante la fase di fermentazione.
Del resto, è in continuo aumento a domanda mondiale di materiali plastici biodegradabili, provenienti da polimeri naturali come la cellulosa delle piante, che presentano, come principale vantaggio, un tempo di degradazione di qualche anno rispetto ai secoli dei prodotti plastici di derivazione petrolchimica.
Non a caso, anche il Pnrr comprende, tra i suoi temi, la ricerca di soluzioni innovative che coniughino sostenibilità ed economia circolare.
Alberto Minazzi