È un professionista della risata, ma quando si parla di pallacanestro la cosa si fa seria. Il suo primo palcoscenico non fu il teatro ma il parquet, dove sfidava i vari Gianolla, Guerra, Pilutti e Coldebella. Carlo D’Alpaos, parla del momento magico dell’Umana Reyer, cominciando dalla prima partita vista: quel Canon-Cinzano del lontano 1977 quando aprì l’Arsenale.
ltro che trucco e parrucco. Altro che espressioni da studiare e parti da mandare a memoria. Carlo D’Alpaos, inconfondibile volto del duo comico Carlo&Giorgio, ben prima di farsi conoscere come attore, a Venezia era noto soprattutto per aver calcato i parquet delle palestre cittadine e non solo. Per carità, si giocava sul parquet quando andava di lusso e più spesso si correva e saltava su materiali più umili e pure all’aperto. Il suo primo palcoscenico è stata la palestra di Murano, dove ha vestito la maglia gialloverde dalle giovanili alla prima squadra. Inutile sottolineare che stiamo parlando di un esperto della materia, cresciuto all’ombra dei canestri nel periodo del massimo seguito mai raggiunto dal basket tra anni Settanta ed Ottanta. Ha smesso i panni da cestista impenitente solo da un anno e intanto segue con occhio attento le sorti dell’Umana Reyer.
«Ho dovuto fermarmi un anno fa, quando mi è partito l’ennesimo legamento e ho capito che non era più il caso. Però ho fatto in tempo a incrociare vecchi compagni ed avversari. L’anno scorso ci siamo ritrovati io, Bortolini, Marascalchi, Cavaldoro, Olmesini, a giocare contro la squadra di Stefano “Charlie” Teso e Massimo Guerra. Alla prima azione io e Massimo ci troviamo faccia a faccia e gli dico “Ma ti rendo conto che l’ultima volta che abbiamo giocato contro c’era ancora il Muro di Berlino?”»
Quali avversari ricordi ancora di quel periodo? « Io sono del ’68, ma ricordo Gianolla che è del ’65, Valentinuzzi del ’66, del ’69 oltre a Guerra c’era anche Nicoletti. E poi c’era il vivaio mestrino, con i vari Pilutti e Coldebella, lo stesso Casarin. Ci ho giocato contro più o meno con tutti. A Murano infatti un anno facemmo addirittura il campionato juniores nazionali. Eravamo i più scarsi, ma vuoi mettere che concorrenza c’era…»
Dove hai mosso i primi passi sotto canestro? «Ho cominciato a giocare a sei anni proprio a Murano. Ho fatto tutte le giovanili fino alla prima squadra. Ai miei tempi si giocava molto all’aperto. I ricchi – pensate un po’ – eravamo noi dell’isola che giocavamo in una palestra. Le altre squadre giovanili veneziane giocavano soprattutto fuori. Ricordo bene le partite alla domenica mattina… in gennaio! Pieni di olio canforato per combattere il freddo e il vento sui campi della Die’n’ai o della Laetitia…»
L’esperienza più significativa dopo Murano? «Direi quella di Mogliano nei primi anni Novanta. Lì ho avuto l’onore di giocare insieme a Lorenzo Carraro. Era il campionato 1991/92, eravamo in serie C. Carraro arrivò a sorpresa poco prima dell’inizio del campionato. Veniva dalle ultime stagioni con la maglia di Siena. Aveva 38 anni ed era ancora fortissimo. Mi ricordo bene una nostra vittoria di 30 punti a Trieste con un suo 15 su 16 al tiro. Immaginate come poteva essere stato da giovane. I cinquantenni e sessantenni di oggi che lo hanno visto giocare ne parlano come di un fenomeno».
Hai vissuto in prima persona un periodo indimenticabile per il basket del nostro territorio. «A ripensarci era un’epoca davvero incredibile. Nel solo centro storico veneziano, da Murano a Piazzale Roma, ad ogni fermata del motoscafo in pratica c’era una squadra. Partivi da Murano dove giocavo io, passavi per le Fondamenta Nuove dove c’era la Die’n’ai, alla Madonna dell’Orto c’era la Laetitia, fino a San Giobbe. E non parliamo di un secolo fa, ma di trent’anni fa. Per non dire di Mestre, dove ad un certo punto c’è stato un settore giovanile di livello nazionale. Tutti poi passavano per la Misericordia. Al sabato c’erano partite dalle tre di pomeriggio alle undici della sera. Tutti i ragazzi che giocavano nelle giovanili passavano per di là».
Seguire la Reyer era quasi un obbligo all’epoca. «Solo per un pelo non ho fatto a tempo a vedere la prima squadra alla Misericordia. Ma c’ero alla prima partita all’Arsenale, insieme a mio fratello più grande. Non avevo nemmeno dieci anni ma ricordo bene quel Canon-Cinzano del 1977, quella vittoria di misura su Milano con cui fu festeggiata la prima uscita nel nuovo impianto».
Come vedi questo nuovo momento di entusiasmo attorno alla Reyer? «Con il suo ritorno in serie A la Reyer ha portato tanti nuovi tifosi, ma allo stesso tempo ha riportato al palazzetto i tanti appassionati che avevano vissuto l’epoca d’oro degli anni Settanta ed Ottanta. Vedo anche adesso un fenomeno per certi versi simile. Ad un aumento demografico e a un maggior numero di bambini, si accompagna un sempre maggior interesse per la pallacanestro. In questi anni ci sono state società che non hanno mai smesso di lavorare bene. E adesso la Reyer fa da traino per tutti».
Neanche lo spostamento temporaneo a Treviso ha sopito la passione. Tu che sei del centro storico come descriveresti il veneziano in trasferta al Palaverde? «Per il veneziano “doc”, che si muove dal centro storico, è stata una via di mezzo tra una gita e una “via crucis”. Figuratevi che per alcuni anche il Taliercio era campagna fino a qualche tempo fa! Mi vedo gli uomini che partono con i panini e le signore, magari di una certa età, che si portano le ciabattine di ricambio dentro alla borsa. Come ai matrimoni: “No se sa mai, stemo via tute ‘ste ore…”»
Ti abbiamo visto alle partite. Il giocatore che più ti ha impressionato di questa Umana Reyer? «Quello che mi colpisce in generale è che sono tutti dei grandi atleti, sono fisicamente superiori rispetto a vent’anni fa. Forse c’è meno ricchezza di movimenti, soprattutto tra i lunghi. Quanto ai singoli, mi è piaciuto soprattutto Alvin Young per lo stile di gioco».
DI ALESSANDRO TOMASUTTI