Che il traffico e gli impianti di riscaldamento siano i principali imputati della bassa qualità dell’aria è un dato innegabile. Ma, al tempo stesso, non si può limitare alle situazioni esclusivamente locali il ragionamento sui livelli di inquinanti presenti in ciò che respiriamo.
Da un lato, dunque, è giusto preoccuparsi della non invidiabile leadership che l’edizione speciale 2021 del rapporto “Mal’Aria” di Legambiente ha assegnato a Venezia e Verona per gli sforamenti nei livelli di Pm10 da inizio anno.
Dall’altro, il report di Cee Bankwatch Network e del Centro di ricerca sull’energia e l’aria pulita CREA invita a guardare anche oltre confine e, più precisamente, verso i Balcani.
Centrali a carbone balcaniche e salute europea
Il rapporto “Comply or Close” ha provato a evidenziare gli effetti sulla salute degli abitanti dei Paesi dell’Unione Europea provocati dalle emissioni delle 18 centrali a carbone attive in Serbia, Kosovo, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord e Montenegro.
Una produzione con un’intensità di andride solforosa, inquinante atmosferico che impatta significativamente sulla salute, circa 300 volte più elevata di quella tollerata nell’Unione Europea.
Le stime del report si basano sui dati dell’Oms e sulla mappa delle correnti d’aria della Nasa. E la conclusione è che, delle circa 19 mila morti riconducibili ai gas nocivi derivanti da questi impianti, solo 6.500, pari al 30% sono avvenute in quei Paesi. Oltre la metà, ovvero 10.800 decessi, si sono invece registrati in Paesi dell’Unione. In particolare, nei paesi limitrofi ai Balcani occidentali: Italia, Ungheria, Romania e Grecia.
Energia balcanica ed Europa
Attualmente, lo 0,3% dell’energia consumata nei Paesi dell’Unione Europea, pari all’8% di quella prodotta negli impianti balcanici, è importato da queste centrali a carbone.
Questo 0,3% corrisponde però alla metà delle emissioni totali di SO2 del 2020 derivanti dalle centrali elettriche dell’Unione. Pur facendo parte dei Piani Nazionali di Riduzione delle Emissioni (NERP), che consentono agli impianti costruiti prima del 1992 di funzionare fino al 2027, gli impianti, secondo il rapporto, non avrebbero rispettato le condizioni imposte.
I NERP prevedono infatti un monte ore annuale di funzionamento non superiore a 20 mila e un tetto di inquinanti emessi nell’ambiente. Ebbene: il report denuncia che questo tetto è stato superato di 6 volte tra il 2018 e il 2019, con un’ulteriore crescita fino a 6,4 volte il consentito nel 2020.
Rapportati alle 221 centrali a carbone dell’UE, gli impianti balcanici hanno così prodotto emissioni pari a quasi 2 volte e mezza quelle europee. Quanto alle polveri, le emissioni sono arrivate nel triennio a 1,6 volte il consentito.
Pandemia e inquinamento dell’aria
Una spiegazione del perché, durante il lockdown, con gran parte delle attività ferme e un drastico calo del traffico automobilistico, la qualità dell’aria nel nostro Paese non sia significativamente migliorata può dunque ricollegarsi anche a questi motivi.
Il rapporto afferma infatti che, in questo periodo, gli impianti balcanici hanno confermato il sia pure leggero trend di aumento delle emissioni.
In Italia, nel 2020, sono state ben 35 le città capoluogo che hanno superato la soglia di sforamenti di PM10 concessi ogni anno. Torino guida la non invidiabile classifica, a quota 98 giorni, seguita da Venezia con 88. Una situazione che richiede interventi che, come sottolinea Legambiente, sono fondamentali non solo per l’ambiente, ma anche per evitare all’Italia pesanti sanzioni dall’Europa. Il nostro Paese ha infatti al momento attive 3 procedure di infrazione per inquinanti. Interventi da mettere in campo da subito, visto che sono già 11 le città che nel 2021 hanno già superato i 35 sforamenti. Ed è in arrivo la stagione fredda, con la riaccensione degli impianti di riscaldamento.
Polveri sottili: le classifiche
Sono le città della Pianura Padana ad aver fatto registrare il maggior numero di giornate con una concentrazione di PM10 nell’aria superiore ai 50 microgrammi per metro cubo.
A quota 41 guidano Venezia (centralina di via Tagliamento, a Mestre) e Verona (centralina di Borgo Milano).
Vengono poi Vicenza (40), Avellino e Brescia (39), Cremona e Treviso (38), Alessandria, Frosinone e Napoli (37) e infine Modena (36). Al limite di 35 giorni sono anche Padova e Rovigo.
“Mal’Aria” cita anche la mappa della qualità dell’aria urbana stilata nel 2021 dall’Agenzia europea dell’ambiente.
Sono presi in considerazione i valori medi di particolato fine (PM2,5) del 2019 e del 2020 in 323 città europee.
I valori più bassi sono quelli della svedese Umea (3,7 microgrammi per metro cubo), della finlandese Tampere (3,8) e della portoghese Funchal (4,2). Sul fondo della classifica, la polacca Nowy Sacz (27,3), l’italiana Cremona (25,9) e la croata Slavonski Brod (25,7). Nelle ultime dieci posizioni, con aria giudicata “scarsa”, risultano anche Vicenza (25,6), Brescia (24) e Pavia (22,9).
Aria buona, ma non abbastanza
Sono invece 127 le città con aria “buona”, ovvero inferiore ai 10 microgrammi di PM2,5 per metro cubo d’aria.
Sei sono italiane: Sassari (5,8), Genova (7,1), Livorno (8,8), Salerno (9,1), Savona (9,3) e Catanzaro (9,4).
Complessivamente, come sottolinea Legambiente, l’ultima valutazione annuale dell’Agenzia ha registrato un netto miglioramento della qualità dell’aria in Europa. Un primo passo per il rispetto delle nuove e più stringenti indicazioni introdotte dall’Oms.
Ma non è ancora sufficiente. Nel solo 2018, ad esempio, le morti premature in 41 Paesi europei dovute all’esposizione al particolato fine sono state ancora ben 417 mila. Di queste, circa 50 mila sono avvenute in Italia che, dunque, ammonisce il rapporto “è a un bivio”. “Le azioni da introdurre – conclude Legambiente, che suggerisce 6 provvedimenti urgenti, riguardanti mobilità, riscaldamento, agricoltura e uscita immediata dal carbone, e una serie di provvedimenti strutturali – devono essere efficaci, incisive e durature per poter cominciare a invertire la rotta”.
Alberto Minazzi