Con il nuovo “Azrael”, l’udinese Pierluigi Porazzi si conferma uno degli astri nascenti del giallo italiano
Non solo Camilleri e Lucarelli: nuovi giallisti crescono e si affermano. Anche a Nordest. Basta pensare a Pierluigi Porazzi, udinese d’adozione: il suo terzo romanzo, “Azrael”, edito dalla veneziana Marsilio, è stato uno dei successi editoriali più eclatanti del 2015. Lo abbiamo incontrato, a Mestre, chiedendogli una riflessione a 360 gradi sul nostro territorio, su thriller e dintorni e sulla situazione della lettura in generale.
AZRAEL: UN GIALLO MODERNO, CHE PIACE ANCHE AGLI AMANTI DEL CLASSICO LA TRAMA
Un misterioso assassino è pronto a colpire utilizzando lo stesso modus operandi del Teschio, il serial killer che agiva coperto da una inquietante maschera che gli è valsa il soprannome. Ma il Teschio è stato catturato, e attualmente è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Allora chi si nasconde dietro la maschera del killer? Chi uccide imitando i macabri rituali del suo predecessore? Qualcuno che sta mettendo in atto una vendetta nei confronti dell’ex agente e profiler Alex Nero? Un complice? Un imitatore? Un seguace? Chi è Azrael? Con Azrael, sequel del suo fortunato esordio L’ombra del falco, Pierluigi Porazzi ha concepito un thriller cupo, serrato e avvincente, che si legge d’un fiato (Azrael, 360 pagine, Farfalle Marsilio, 1^ edizione 2015, euro 18, isbn: 978-88-317-2141-7).
LA RECENSIONE
Da Udine a Padova, da Lignano a Trieste, il territorio d’elezione di Azrael, come di tutti i romanzi di Porazzi, è il Nordest. Ma non il cliché classico di queste terre, che sul lavoro e sul sudore della fronte hanno costruito la propria fortuna e, perché no, una buona fetta anche della fortuna dell’Italia: ci troviamo di fronte il Nordest della crisi, il Nordest terra di confine, che si interroga (quasi con un senso di rassegnazione) davanti a tematiche di stretta e dolorosa attualità, dall’immigrazione, alla corruzione, alle diffuse difficoltà economiche. È l’effetto della globalizzazione, che non rende stridente l’ambientazione in una realtà geografica relativamente piccola, quasi familiare, di una tematica molto più legata, nell’immaginario collettivo, alle grandi città tentacolari, come quella del serial killer. Porazzi, da scrittore giovane ma già con le idee ben chiare ed un limpido stile moderno e scorrevole, riesce a reinventare in maniera del tutto originale uno degli argomenti più sfruttati dalla letteratura di genere, non tralasciando gli aspetti psicologici, legati alle intime riflessioni dei protagonisti, provati da dure vicende personali. Ne esce un romanzo, a tratti molto crudo, in cui, passando tra numerosi colpi di scena, la tensione cresce col passare delle pagine, fino alle – letteralmente mozzafiato – ultime pagine. Un finale in cui emerge l’inattesa verità sull’identità del nuovo “Teschio”, il serial killer che ripercorre in Azrael il discorso lasciato interrotto dal suo predecessore ne “L’ombra del falco” (a proposito, un consiglio: se trovate il romanzo d’esordio di Porazzi, leggetelo assolutamente prima di questo, visto che, giocoforza, Azrael parte rivelando l’identità del “Teschio” e, cioè, la soluzione del primo libro). E va detto che, pur trattandosi di un romanzo tipicamente in linea con la modernità del genere, è in grado di soddisfare, attraverso l’onestà della soluzione, anche chi è più affezionato al classico “giallo ad enigma” in stile Agatha Christie. Al lettore, infatti, l’autore mette a disposizione, ben dissimulati nel testo, due indizi importantissimi per identificare l’identità del colpevole, uno dei quali (quello più evidente, che però va interpretato con mente enigmistica) in perfetta linea con i “messaggi in punto di morte” tipici di un grande del giallo come Ellery Queen. Un’ultima considerazione, che esula dalle considerazioni di natura strettamente giallistica, va riservata ai passaggi “sociali” di un romanzo che si spinge ben oltre la narrativa di genere. L’amara riflessione sulla crisi (a pagina 78/79) e la frase di pagina 272/273 (Cambia canale, non potendo cambiare il mondo) sono, a mio parere, le migliori righe che ho letto riguardo al tema del difficile periodo che sta attraversando la società occidentale, e l’Italia in particolare. Voto: 5 stelle (su 5). (A.M.)
PIERLUIGI PORAZZI
Classe 1966, novarese di nascita ma friulano d’adozione, lavora come avvocato presso la Regione Friuli Venezia Giulia ed è iscritto all’albo dei giornalisti pubblicisti dal 2003. Come scrittore, fa parte del progetto Sugarpulp. Inizia la sua avventura letteraria nel thriller con alcuni racconti, che appaiono su riviste letterarie, in antologie e in rete: alcuni di questi compongono le due raccolte “La sindrome dello scorpione”, edita da Campanotto nel 1998, e “Simmetrie oscure”, pubblicata da Meme Publishers nel 2013. Tutti i suoi romanzi sono editi da Marsilio, nella collana “Farfalle”. Il primo, del 2010 è “L’ombra del falco” (2 edizioni), il secondo (2013) “Nemmeno il tempo di sognare”, in seguito usciti anche, rispettivamente, nelle collane “Noir Italia” (Il Sole 24 Ore, 2013) e “Il Giallo Italiano” (Corriere della Sera, 2014). Il suo ultimo libro, pubblicato sempre da Marsilio, è “Azrael” (2015), sequel del romanzo d’esordio, che è stato recentemente presentato in un incontro alla biblioteca civica Vez di Mestre, per la rassegna “Gialli d’autore”.
Porazzi, lei ambienta i suoi romanzi a Udine, nel profondo Nordest: da cosa nasce questa scelta?
«Dal fatto che conosco bene Udine, che è la mia città, e mi piace renderla protagonista in un romanzo, anche perché è una realtà attenta alla cultura e alla letteratura. Però si presta molto bene a un’ambientazione noir; sotto l’apparente normalità e tranquillità, anche Udine non è diversa da qualunque altra grande città».
Come vede, attraverso lo spaccato dei suoi libri, l’evoluzione sociale di questa parte d’Italia?
«Credo che il Nordest stia cambiando come il resto dell’Italia, uniformandosi sempre di più alle altre realtà. Questa è una delle conseguenze dirette della cosiddetta globalizzazione, che ha portato con sé elementi positivi (ad esempio a livello di scambio culturale) e negativi (lo strapotere di multinazionali e speculatori)».
Stefano Di Marino, di recente, ha ambientato un suo romanzo, “Il palazzo dalle cinque porte”, uscito nei Gialli Mondadori, a Venezia: lei ha mai pensato di scrivere qualcosa ambientato in questa città?
«Sì, piacerebbe anche a me scrivere un romanzo ambientato a Venezia, e non è escluso che lo faccia, devo solo trovare la storia giusta. A mio parere è una città ricca di fascino e mistero, ambientazione ideale per una storia “gialla”».
O, magari, per il tipo di storie che scrive, vede meglio un’ambientazione nella nuova Città Metropolitana?
«Certo, come idea, la Città Metropolitana può essere affascinante anche per ambientare un noir o un thriller, per vedere, a livello economico e sociale, cosa potrà portare questo cambiamento».
Venezia è vista come location cinematografica ideale. Lo è molto meno per i gialli (personalmente, ricordo ‘L’albergo dei fantasmi’ di Wilkie Collins, che però risale al 1887): come se lo spiega?
«In realtà, non me lo spiego. Venezia è un’ambientazione ideale, a mio avviso, sia per gialli e thriller, sia per romanzi o film di altro genere. Forse non ci sono molti scrittori veneziani che amino scrivere gialli?».
Iniziative come “Gialli d’autore”, che l’ha portata ad incontrare i lettori alla Vez di Mestre, aiutano la riscoperta del genere thriller-mystery? E avvicinano alla lettura in generale?
«Sicuramente iniziative interessanti come “Gialli d’autore” aiutano a riscoprire il genere. Spero proprio che incuriosiscano e riescano ad avvicinare anche nuovi lettori, perché sono sempre troppo poche le persone appassionate alla lettura in generale».
È vero, secondo lei, che la lettura è in crisi?
«È verissimo, purtroppo, e soprattutto in Italia, dove si legge meno che negli altri Paesi. Non saprei indicarne i motivi, bisognerebbe fare un’indagine sociologica. Uno di questi è senza dubbio una buona dose di pigrizia: è più “facile” vedere un film, giocare a un videogioco o ascoltare musica che leggere un libro. Però leggere dà emozioni uniche: sei tu che giri il tuo personalissimo film, immagini i personaggi e le vicende. Credo che si dovrebbe rivedere il concetto di “divertimento”, che andrebbe vissuto a livello etimologico (dal latino divertere). Divertirsi non è solo ridere, ma anche e soprattutto pensare, riflettere. Questo è il concetto di divertimento che si dovrebbe cercare di diffondere. Come è stato detto, leggere fa vivere tante vite diverse».
Gli e-book possono essere la soluzione o rischiano di tradursi in un boomerang?
«Personalmente non amo gli e-book, preferisco ancora leggere i libri stampati su carta. Non penso che possano stimolare chi non legge ad avvicinarsi alla lettura. Però, se fosse così, e se riuscissero a conquistare nuovi lettori (anche per il prezzo inferiore), ben vengano!».
E il giallo, pensando ad esempio ai problemi del Giallo Mondadori in edicola o all’anno di pausa che si è preso Polillo, da poco tornato in libreria con i suoi Bassotti, è in crisi?
«Non credo che il giallo sia particolarmente in crisi: è in crisi come l’editoria in generale, dal momento che la gente legge molto poco. Ma il giallo ha sempre uno zoccolo duro di lettori appassionati su cui si può fare affidamento (e lo stesso vale per altri generi letterari)».
Intanto, però, ultimamente sta rifiorendo il giallo italiano, che, dopo Scerbanenco, per tanti anni ha lasciato la scena incontrastata agli scrittori di lingua inglese: perché, secondo lei?
«Secondo me era più che altro una questione di abitudine: leggendo sempre storie ambientate nel mondo anglosassone e vedendo film e telefilm americani, lo spettatore medio storceva il naso quando il protagonista aveva un nome italiano e le vicende si svolgevano a Milano invece che a Londra o New York. Per fortuna, grazie a Scerbanenco, Macchiavelli, Lucarelli, i primi grandi giallisti italiani, le cose adesso stanno cambiando. Certo, una Csi ambientata in Italia non sarebbe credibile, bisogna fare i conti con la realtà, una realtà in cui spesso le indagini, come si evince da numerosi fatti di cronaca nera, sono condotte in modo approssimativo e poco professionale. Però ormai credo che l’ambientazione italiana di un giallo sia naturale, per lettori e spettatori. Anzi, a dirla tutta, i giallisti e noiristi italiani sono tra i migliori al mondo. Basta fare alcuni nomi: De Giovanni, Carlotto, De Marco, Pulixi, Carrisi, Morozzi, Pandiani, per accorgersi della grande qualità e varietà di proposte che gli autori italiani sono in grado di offrire, ognuno con una sua voce particolare e personalissima».
Recenti analisi di mercato dicono che i gialli sono letti soprattutto dalle donne e, dalla Christie a Elizabeth George, all’estero le gialliste di successo non mancano. Qui da noi, invece, gli scrittori sono praticamente solo uomini: come se lo spiega?
«Premetto che per me esistono solo autori, non mi piace distinguere tra autori uomini e donne, non ha senso. Detto questo, in realtà ci sono tante bravissime scrittrici, anche di gialli: penso, solo per fare alcuni nomi, a Grazia Verasani, Marilù Oliva, Elisabetta Bucciarelli, Paola Barbato».
Passata la Golden Age, passato il periodo hard boiled, attraverso procedural e legal thriller verso dove sta evolvendo il giallo?
«Il giallo, secondo me, sta evolvendo verso una commistione tra i diversi sottogeneri. Sempre più spesso i romanzi (ma anche i film) sono, allo stesso tempo, thriller, noir e mystery. Pensiamo anche ad autori sulla cresta dell’onda, come Jo Nesbo o Michael Connelly. I loro romanzi sono sì thriller, ma anche mystery (perché spesso il colpevole viene svelato soltanto alla fine) e ricchi di atmosfere noir».
Che rapporto c’è e come si influenzano libri gialli e serie tv?
«C’è un rapporto di grande rispetto e attenzione. Spesso la tv ha prodotto serie basate su personaggi letterari, ma anche le serie tv (che negli ultimi anni sono più innovative del cinema) hanno ispirato e formato la letteratura. Serie come Breaking Bad, True Detective o 24 hanno influenzato gli standard della narrazione».
E come incidono i casi di cronaca nera sulla letteratura?
«Spesso ci si ispira a casi di cronaca nera, per uno spunto iniziale. E poi si guarda alla cronaca nera per vedere come funziona, e se funziona, l’apparato investigativo. Il fatto che in molti casi le indagini siano state condotte in modo poco professionale è comunque da tenere presente, per un autore, perché il poliziotto infallibile non fa parte della realtà, in particolare di quella italiana».
In due dei suoi tre libri, compreso Azrael, lei si incentra sulla tematica del serial killer, riuscendo, a sentire gli esperti, a trovare una veste nuova ad un tema abbastanza sfruttato dal genere: dove trova le sue idee?
«Le idee arrivano nei modi più impensati. A volte mentre si fa tutt’altro, a volte di fronte allo schermo del computer, a volte leggendo testi criminologici o altri romanzi, o guardando un film. Nello specifico, le idee su cui sono incentrati L’ombra del falco e Azrael mi sono venute nel tentativo di raccontare qualcosa di nuovo e non ancora esplorato riguardo a un argomento, quello dei serial killer, che è stato spesso sviscerato da molti autori».
È solo al terzo romanzo, ma è già diventato uno scrittore cult per gli amanti del genere. Nel gruppo “Corpi freddi” su aNobii, la diffusa comunità on-line di lettori, Azrael è stato votato ex aequo miglior romanzo del 2015: qual è il suo segreto?
«L’apprezzamento dei “Corpi Freddi” mi fa particolarmente piacere, e mi inorgoglisce, perché si tratta di un gruppo di lettori veri, appassionati e sinceri. Magari ce ne fossero di più, di lettori così! Nessun segreto: cerco di scrivere un romanzo che a me piacerebbe leggere, e cerco sempre di essere onesto con il lettore, dandogli tutti gli indizi per risolvere l’indagine (ma cercando al contempo di non rendergli la cosa troppo facile!)».
Ci sveli un’anticipazione: sta lavorando ad un nuovo romanzo?
«Sto lavorando ad alcune idee. Una riguarda l’identità, l’altra il classico caso di una persona qualunque che viene coinvolta in una vicenda più grande di lui. Per il momento ho deciso di accantonare il cast di personaggi dei precedenti romanzi, che però torneranno sicuramente in futuro».
Un’ultima domanda: alcuni suoi colleghi, come Morozzi con ‘Lo specchio nero’ o Bigliazzi con ‘In bianco’, hanno riscoperto tematiche “classiche” come i delitti di camera chiusa. Chi la conosce, la dipinge, nonostante scriva thriller moderni, come un amante anche del giallo classico: possiamo attenderci da lei anche un libro meno attuale e più vicino alle atmosfere di John Dickson Carr?
«Certo, anche a me piace il giallo classico; sono stato un avido lettore di Agatha Christie, Ellery Queen, e tanti altri. Le rielaborazioni citate, in particolare “Lo specchio nero” di Gianluca Morozzi, riprendono un tema classico ma in chiave moderna e con uno stile molto personale. In realtà, una cosa del genere c’era già in un mio precedente romanzo, “Nemmeno il tempo di sognare”, in cui non compare un delitto della camera chiusa, ma una situazione più da giallo classico che da thriller moderno, per quanto riguarda l’omicidio su cui è incentrata la storia. Non escludo che in futuro possano esserci altri omaggi al giallo classico».