Uno studio americano e gli scenari stimati dall’Istat dipingono un quadro poco incoraggiante per le nuove generazioni
L’aumento della longevità reso possibile dagli enormi progressi compiuti dall’uomo nel XX secolo ci ha fatto accarezzare il sogno di poter pensare, se non all’immortalità, almeno all’idea che saranno sempre più coloro che varcheranno il secolo di vita.
In realtà, pur se le conclusioni sono controverse a livello scientifico, uno studio americano afferma che la prospettiva di diventare centenari è destinata a frenare.
Eppure, almeno in Italia, una certa longevità sarà necessaria per potersi godere la pensione per un periodo non troppo breve. Perché le nuove stime elaborate dall’Istat indicano che le nuove generazioni potrebbero dover attendere di compiere 70 anni per uscire dal lavoro.
Italiani in pensione a 70 anni?
L’aggiornamento dell’Istituto di statistica alza infatti l’asticella dell’età pensionabile ancor più di quanto fatto a giugno dalla Ragioneria generale dello Stato.
A essere interessati sono tutti i nati dal 1960 in poi.
La soglia della pensione di vecchiaia, per chi ha versato contributi prima del 1996, è attualmente fissata a 67 anni di età e 20 di contributi.
E il prossimo adeguamento del requisito della speranza di vita, ferma dopo il 2019 a causa del Covid, dovrebbe scattare secondo l’Istat nel 2027 anziché nel 2029.
Sulla base delle previsioni demografiche diffuse lo scorso 24 luglio, la nuova stima è così quella di uno scatto di 3 mesi dal 1° gennaio 2027, di altri 3 dal 2029 e di ulteriori 3 (portando così l’età pensionabile a 67 anni e 9 mesi) nel 2031.
Il sensibile rapporto tra pensionati e lavoratori
Lo spostamento della soglia proseguirebbe quindi progressivamente, raggiungendo i 69 anni nel 2045, i 69 anni e 9 mesi nel 2051 e i 69 anni e 10 mesi nel 2055.
Per i più giovani, dunque, la prospettiva è quella di dover lavorare almeno fino a 70 anni.
Il tutto, per di più, sempre che non si verifichi lo scenario più fosco, con 52,7 milioni di residenti nel 2050. Le stime Istat si riferiscono infatti allo scenario intermedio, che prevede un numero di residenti nel 2050 pari a 54,8 milioni e un flusso netto di migranti in entrata che non scenda sotto quota 230 mila fino al 2030 e sotto i 170 mila fino al 2050.
Se le cifre reali, invece, fossero inferiori, la possibilità di chiedere il pensionamento si sposterebbe in avanti ancor più rapidamente. Fermo restando che la linea del Governo è quella di incentivare la permanenza al lavoro e non introdurre nuovi canali di pensione anticipata.
Durata della vita umana vicina al limite massimo
Oltre che per gli interventi di adeguamento necessari a garantire la sostenibilità del sistema, la prospettiva di una riduzione della futura durata del periodo di vita in pensione rispetto a quanto ne stanno godendo ora gli anziani si lega anche a quelli che sarebbero i limiti massimi oltre i quali la vita umana non potrà mai arrivare.
In merito, le teorie degli scienziati, che non potranno essere che verificate nei fatti, ma con una prospettiva temporale molto lunga, sono variegate, con visioni ottimistiche e altre decisamente meno.
Tra i sostenitori della tesi secondo cui il miglioramento delle condizioni di vita abbia già espresso appieno il suo potenziale c’è il demografo S. Jay Olshansky, che ha appena pubblicato sulla rivista “Nature Aging” i risultati dello studio svolto con il suo gruppo di lavoro all’Università statunitense di Harvard. Un lavoro che esprime il punto di vista già nel titolo: “Implausibilità di un’estensione radicale della vita negli esseri umani nel ventunesimo secolo”.
Lo studio ricorda che “nel corso del XX secolo, l’aspettativa di vita umana alla nascita è aumentata di circa 30 anni nei Paesi ad alto reddito, in gran parte grazie ai progressi nella sanità pubblica e nella medicina”. Dai 39 anni medi del 1900, nel 1990 l’aspettativa di vita alla nascita era salita a 74 anni. I ricercatori si sono dunque interrogati sulla possibile continuazione del fenomeno anche nel XXI secolo. Riscontrando che “dal 1990, i miglioramenti complessivi nell’aspettativa di vita hanno subito un rallentamento”.
Centenari solo il 15% delle femmine e il 5% dei maschi
Gli studiosi sono arrivati alle loro conclusioni utilizzando i parametri demografici di sopravvivenza ricavati dalle statistiche vitali nazionali negli 8 Paesi con le popolazioni più longeve (Australia, Francia, Italia, Giappone, Corea del Sud, Spagna, Svezia e Svizzera), più Hong Kong e Stati Uniti. Per il periodo dal 1990 al 2019 sono state dunque esplorate le recenti tendenze dei tassi di mortalità e dell’aspettativa di vita.
“La nostra analisi – spiega l’abstract dello studio – ha anche rivelato che la resistenza al miglioramento dell’aspettativa di vita è aumentata mentre la disuguaglianza nella durata della vita è diminuita e si è verificata una compressione della mortalità”. Ma, soprattutto, con riferimento alla situazione attuale, “suggerisce che la sopravvivenza fino a 100 anni difficilmente supera il 15% per le femmine e il 5% per i maschi”, per quanto l’effetto dei “boomers” possa ancora aumentare le percentuali rispettivamente del +5,1% e +1,8%.
Olshansky conclude dunque avanzando l’ipotesi, sostenuta dai risultati complessivi delle ricerche, che “a meno che i processi di invecchiamento biologico non possano essere notevolmente rallentati, un’estensione radicale della vita umana non è plausibile in questo secolo”.
Dopo il picco di 78 anni del 2020, seguito da una discesa a 77 anni l’anno successivo per gli effetti della pandemia, la lunghezza della durata della vita umana, in altri termini, avrebbe raggiunto ormai il massimo possibile, esaurendo in pratica la prima “rivoluzione della longevità”.
Alberto Minazzi