Amare, lasciarsi, soffrire, amarsi di nuovo, magari per l’eternità, e poi qualche sprazzo di originalità, mentre fuori gli anni scorrono.
Cosa non sarebbe l’italianità senza le canzoni di Sanremo e cosa saremmo noi italiani senza il Festival della canzone italiana?
Un Natale pagano, le due settimane di ferie ad agosto: se ne parli bene o male, Sanremo è uno di quegli appuntamenti che ci avvicina sotto la stessa bandiera; scostandola e buttando gli occhi all’indietro, tra i vincitori si riscoprono piccole perle e imprevisti canori.
Mica le novità sono solo del terzo millennio: tra Nilla Pizzi e i Maneskin passano 70 anni e tanto spazio così (a vostra discrezione).
Un successo annunciato
Sanremo nasce come Festival della canzone, e lo era veramente.
Pochi cantanti chiamati a interpretare, tante canzoni realmente protagoniste.
A Sanremo, città dei fiori, non poteva che essere Grazie dei fiori di Nilla Pizzi la prima vincitrice del Festival, dando il “La” alla tipica canzone sanremese: liriche amorose e struggenti, molto più vicine al mondo dei soprano e dei baritoni che alla musica pop per come la conosciamo (ma pur sempre sanremese). Leggera perché meno orchestrata, ma pur sempre tecnicamente profonda, mentre l’Italia imparava ad amarsi e ricuciva le ferite di guerra.
“Nel blu dipinto di blu”
Finché venne Domenico. Non si ha una chiara percezione della novità chiamata Modugno finché non si ascoltano, di filata, i vincitori di Sanremo dagli esordi fino al 1958.
Nel blu dipinto di blu cantata dal cantautore pugliese è veramente un’altra cosa.
Precursore di 30-40 anni rispetto alla tabella di marcia, l’interpretazione di Domenico Modugno (in coppia con Johnny Dorelli – all’epoca un brano era cantato da due cantanti) ha messo l’Italia al centro del mondo. Il Miracolo economico in rampo di lancio, e l’Italia pronta a vivere il suo sogno cobalto.
“Chi non lavora non fa l’amore”
Una decade, gli anni Sessanta, fatta di Sanremo e spruzzi di americanità.
Prima Tony Dallara, poi sfacciatamente Bobby Solo: gli italiani entrano nell’Occidente industriale invitando artisti stranieri e imitando il Re d’Oltremanica, sua maestà Elvis Presley, fintantoché non si affaccia il secondo coup de teatre, nei cori e controcori della coppia Adriano Celentano e Claudia Mori.
Chi non lavora non fa l’amore sembra quasi voglia avvertire l’Italia: va bene Sanremo, ma devi continuare a darti da fare, altrimenti di amori cantati non se ne parla più (polemiche sugli scioperi a parte).
Da “E dirsi ciao” a “Per Elisa”
Gli anni Settanta corrono così: si ritorna a Sanremo e alle sue canzoni sanremesi, quasi a non voler disturbare quel che accade fuori dal palco durante gli Anni di piombo.
Si abbatte la prima meteora canora che risponde al nome di Gilda, nel 1975, e i Matia Bazar vincono il loro primo festival – l’ultimo nel 2002, 24 anni dopo, storia di un ‘eterno ritorno italiano’ (nel frattempo, Iva Zanicchi ne aveva già vinti tre; Claudio Villa, recordman, è a quattro).
Fino alla pazzia degli anni Ottanta: la voglia di rivalsa e di ritornare alla leggerezza si infrange sulle note di Per Elisa: no, non è Beethoven, ma Alice, ed è indiscutibilmente rock ribelle alle donne frivole e gli uomini accondiscendenti.
“Si può fare di più”
Inoltre, il 1982 regala un’altra perla da un insospettabile Riccardo Fogli in versione dance.
L’ex Pooh vince Sanremo con Storie di tutti i giorni, in perfetta sintonia con l’ambiente disco del palco. A mantenere alta la frizzantezza, nel 1984 Albano e Romina (Ci sarà) e soprattutto i Ricchi e Poveri (Se m’innamoro) dimostreranno che si può cantare d’amore e essere allegri.
Di tutt’altro tiro il trio Morandi-Ruggeri-Tozzi: Si può fare di più sembra calzare a pennello con la fine della guerra fredda, la caduta del Muro di Berlino e le tragedie al di là del mar Adriatico. Tutti sono chiamati a dare una mano: “la storia siamo noi”, e la globalizzazione inizia a bussare forte.
Gli anni Novanta: tra canzoni rimaste e altre dimenticate
I fuochi d’artificio, gli anni Novanta, li tiene per la fine del millennio, salvo i sorrisi maligni sul casuale binomio Mistero (Enrico Ruggeri) e l’inchiesta Mani Pulite: nel 1997 nasce la leggenda dei Jalisse, vincitori e mai dimenticati (se non dagli autori del festival). Tra la paura del Millennium Bug e del “2000 o non più 2000”, la piccola orchestra Avion Travel (canta, Peppe Servillo) scippa una vittoria insperata (e dimenticata, qui sì da molti) circondati da Anna Oxa e Elisa. Le due cantanti sembrano sorelle di uno spirito sceso su Sanremo volto a scompigliare le carte e a creare confusione nel Terzo Millennio.
“L’essenziale” e “Occidentali’s Karma”
L’epoca d’oro sanremese subisce qualche colpo, tra polemiche nelle conduzioni e percentuali di share in ribasso, e anche l’Italia inizia ad arrancare fino a toccare il paradosso di nuovi cantanti, freschi vincitori di talent show, trionfatori della kermesse italiana qualche mese dopo; sembra, col senno di poi, il trionfo del successo “mordi e fuggi”, laddove si salverà solo Marco Mengoni con L’essenziale. Da qui, arriviamo pian piano ai giorni nostri: la ricerca di una nuova normalità. Il Volo ridà quel guizzo di lirico nel 2015 (Grande Amore) mentre Francesco Gabbani sembra rivoltarla, la norma sanremese, con Occidentali’s Karma.
Dal rap al rock dei Maneskin
Nel 2019 il rap ha finalmente avuto la sua fetta di rivalsa e conquista, affermandosi agli occhi degli italiani grazie a Mahmood (Soldi). Poi, il Fai Rumore di Diodato e il Zitti e buoni dei Maneskin; sembra esserci della schizofrenia nel signor Sanremo, e come dargli torto di questi tempi.
Che storia racconterà Sanremo 2022? Si ritornerà all’Ammore con due ‘m’ o sarà un’altra critica, un’altra narrazione sociale, un’esortazione? Non rimane che mettersi comodi, caricare le borracce di caffè e ascoltare. Il Festival ritorna a cantare l’Italia.
Damiano Martin