Nel 2021 la retribuzione media in Italia ammontava a 21.868 euro. Nel capoluogo lombardo i salari differiscono di ben il 164% rispetto a Vibo Valentia
In alcune regioni d’Italia si guadagna di più. In altre meno. Soprattutto al Sud
A mettere in luce gli squilibri retributivi tra le due parti del Paese è l’ultimo rapporto della CGIA di Mestre che, in riferimento al 2021, ha sottolineato soprattutto il divario tra i lavoratori dipendenti occupati nel settore privato della Città Metropolitana di Milano e la provincia di Vibo Valentia, in Calabria, rispetto alla quale la differenza si attesa su un +164% per Milano e +90% rispetto ad altre aree del Sud.
Tra le città con i salari medi più elevati, dopo Milano risultano Parma (25.912 euro), Bologna (25.797), Modena (25.722) e Reggio Emilia (25.566).
Con l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro CCNL si è cercato porre rimedio alle differenze salariali, ma gli effetti sperati si sono avuti solo in parte, rileva la CGIA.
Questo perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie, assicurative e bancarie che tendenzialmente riconoscono ai loro dipendenti stipendi più elevati della media sono collocate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord. E sono proprio queste attività a disporre di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata, quali manager, dirigenti, quadri, tecnici con livelli di istruzione alti ai quali va corrisposto uno stipendio importante.
Se infatti si mettono a confronto lavoratori dello stesso settore, rileva ancora il rapporto, le differenze territoriali si riducono e mediamente sono addirittura più contenute di quelle presenti in altri Paesi europei.
Contrattazione decentrata piuttosto che salario minimo
Tuttavia, la scarsa diffusione nel nostro Paese della contrattazione decentrata (un tipo di contratto collettivo che contiene disposizioni e norme di carattere accessorio al contratto principale solitamente di tipo indennitario ed economico, ndr), ad esempio molto presente in Germania, non consente ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale facendo riscontrare anche dei gap retributivi medi con altri Paesi molto importanti.
Contratto nazionale scaduto per un dipendente privato su due, contratto di secondo livello solo per 3,3 milioni di lavoratori
Per avere buste paga più pesanti oltre alla contrattazione decentrata, secondo lo studio CGIA, sarebbe necessario rispettare le scadenza entro le quali rinnovare i contratti di lavoro. Basti pensare che al 1 settembre scorso, al netto del settore agricoltura, del lavoro domestico e di alcune questioni di natura tecnica, il 54% dei lavoratori dipendenti del settore privato aveva il CCNL scaduto. Tradotto in numeri quasi 7,5 milioni di dipendenti su un totale di quasi 14 milioni.
E’ verosimile ritenere, spiega la CGIA di Mestre, che in molti casi questo sia riconducibile alle difficoltà che le parti riscontrano nel trovare un accordo che vada bene sia al Nord che al Sud del Paese.
Il 15 giugno scorso erano presenti presso il Ministero del Lavoro 10.568 contratti attivi di secondo livello, di cui 9.532 di natura aziendale e 1.036 territoriali.
Dei contratti attivi il 72% è stato sottoscritto al Nord, il 18% al centro e il 10% al Sud.
Il numero più elevato di contratti è in Lombardia che ne conta 3.218, Emilia Romagna 1.362 e Veneto 1.081. A livello nazionale sono coinvolti 3,3 milioni di dipendenti, il 20% del totale.
Silvia Bolognini