Dalle orme di anfibi e rettili, a piante e semi, fino a gocce di pioggia: recuperati reperti di 280 milioni di anni fa
Non derivano solo conseguenze negative dallo scioglimento dei ghiacciai legato ai cambiamenti climatici.
La riduzione della copertura di neve e ghiaccio sulle vette alpine del Parco delle Orobie valtellinesi ha permesso infatti di riportare alla luce un ricchissimo sito archeologico risalente a ben 280 milioni di anni fa.
Un ritrovamento eccezionale, visto che si tratta di un intero ecosistema fossilizzato su lastre di arenaria a grana finissima, che ha consentito di conservare un’enorme quantità di reperti, per di più a un livello qualitativo tale da rendere visibili dettagli ritenuti inimmaginabili.
Insieme alle orme di anfibi rettili tetrapodi e invertebrati, a piante e semi, tra i materiali, il cui recupero in alta quota è iniziato il 21 ottobre, utilizzando anche il supporto di un elicottero, ci sono infatti anche impronte di dita, scie di lunghe code, increspature delle onde sulle rive di laghi preistorici e persino gocce di pioggia fossilizzate.
La scoperta del sito paleontologico delle Orobie valtellinesi
I ritrovamenti, che consentono di ricostruire le condizioni della vita nel sito nel Permiano, l’ultimo periodo dell’Era paleozoica, sono stati presentati per la prima volta al museo di Storia naturale di Milano.
Mappate centinaia di tracce fossili
La scoperta trae origine dalla prima traccia fossile rinvenuta da un’escursionista locale su un sentiero della Val d’Ambria, nel comune di Piateda, a 1700 metri di quota, all’interno dell’area di competenza del Parco.
Dopo una serie di sopralluoghi, a partire dall’estate del 2023 i ricercatori sono riusciti a fotografare e mappare centinaia di tracce fossili, affioranti dalle pareti verticali e dagli accumuli di frana sottostanti, fino ai quasi 3 mila metri di quota del Pizzo del Diavolo di Tenda, del Pizzo dell’Omo e del Pizzo Rondenino. Un patrimonio ricchissimo con reperti anche di qualche metro di dimensione, spesso ancora allineate a formare “piste”, ovvero camminate.
“A quell’epoca – spiega Cristiano Dal Sasso, paleontologo del museo milanese – i dinosauri non esistevano ancora, ma gli autori delle orme più grandi qui ritrovate dovevano avere dimensioni comunque ragguardevoli: fino a 2-3 metri di lunghezza”. Inoltre, su alcune superfici sono fossilizzate orme di almeno cinque diverse specie di animali, che consentiranno di effettuare accurate ricostruzioni paleoecologiche.
La formazione e l’eccezionale conservazione dei reperti
“Le impronte – illustra Ausonio Ronchi, del Dipartimento di Scienze della Terra e dell’ambiente dell’Università di Pavia – sono state impresse quando queste arenarie e argilliti erano ancora sabbie e fanghi intrisi di acqua, ai margini di fiumi e laghi che periodicamente, secondo le stagioni, si prosciugavano. Il sole estivo, seccando quelle superfici, le indurì al punto tale che il ritorno di nuova acqua non cancellava le orme ma, anzi, le ricopriva di nuova argilla formando uno strato protettivo”.
“La grana finissima dei sedimenti ora pietrificati – aggiunge Lorenzo Marchetti del Museum fur Naturkunde di Berlino ha permesso la conservazione di dettagli talvolta impressionanti, come le impronte dei polpastrelli e della pelle del ventre di alcuni animali. Forma e dimensioni delle tracce indicano una qualità di preservazione e una paleo-biodiversità notevole, probabilmente anche superiore a quella osservata in altri giacimenti della medesima età geologica nel settore orobico e bresciano”.
Più rari, nel sito, i fossili vegetali, come fronde, frammenti di fusti e semi. Strutture sedimentarie ritenute altrettanto interessanti, soprattutto come elementi per ottenere una dettagliata ricostruzione paleoambientale e paleoclimatica da effettuare tramite esami sedimentologici e stratigrafici, sono poi le fratture di disseccamento del suolo, le increspature da moto ondoso o da corrente e le impronte di gocce di pioggia. “Questi fossili – spiegano i ricercatori – testimoniano un periodo geologico lontano ma con una tendenza al riscaldamento globale del tutto analoga a quello dei giorni nostri”.
Alberto Minazzi