Tra gli effetti a lungo termine, il contagio può provocare disturbi cognitivi e psichiatrici. Fino a 10 punti di QI in meno
Già a fase pandemica in corso, gli studiosi avevano iniziato a esaminare gli effetti del cosiddetto “long Covid”, notando che le conseguenze dell’infezione da Sars-CoV-2 in buona parte delle persone colpite non si limitano alla fase acuta della malattia, ma si traducono in una sindrome clinica con sintomi variabili: dalla fatica persistente alla stanchezza, da debolezza e mancanza di appetito a dolori muscolari e articolari.
Un ventaglio amplissimo di possibilità, a livello respiratorio, cardiovascolare e gastrointestinale, ma anche neurologico e psicologico. Ed è proprio sui disturbi cognitivi e psichiatrici legati al Covid che si è concentrato il lavoro di un gruppo ricercatori del Regno Unito, coordinati dalle Università di Oxford e Leicester. E dallo studio, condotto su 475 ricoverati durante la prima ondata di pandemia e pubblicato su “Lancet Psychiatry” sono emersi risultati sorprendenti.
Il Covid che riduce il Q.I.
La possibilità che il Covid lasci strascichi come ansia e depressione era già evidente.
Gli scienziati, adesso, hanno dimostrato che l’infezione può influire a lungo termine anche a livello cerebrale: sull’attenzione, sulla memoria e addirittura sul quoziente intellettivo.
Anche a 2-3 anni dal contagio e dal ricovero, nel campione di persone analizzato si è registrata infatti una perdita media di 10 punti di Q.I. E il grado di recupero a 6 mesi è un forte predittore degli esiti.
I disturbi cognitivi e psichiatrici legati alla malattia, in altri termini, possono avere una natura persistente, come confermato dal fatto che i punteggi ottenuti nei test di attenzione e memoria svolti al computer da parte degli ex ricoverati per Covid sono stati significativamente più bassi. Inoltre, più di un quarto dei partecipanti ha dichiarato di aver cambiato lavoro negli ultimi anni, in gran gran parte proprio a causa dei nuovi deficit cognitivi.
Le altre conseguenze psicologiche
A riferire sintomi gravi di depressione, poi, è stato circa il 20% degli intervistati, con un quarto che ha riscontrato problemi di memoria, un altro quarto affaticamento e 1 su 8 ansia, con una situazione in peggioramento col trascorrere del tempo. A preoccupare, in tal senso è anche il fatto che, pur essendosi presentati in molti casi già a 6 mesi di distanza, questi sintomi sono comparsi per la prima volta anche dopo un paio d’anni dalla guarigione.
Un dato che, sottolineano i ricercatori, suggerisce che i primi sintomi possono essere predittivi di disturbi successivi e più gravi. Per questo, risulta fondamentale una gestione tempestiva, indirizzando correttamente gli interventi preventivi. Anche anni dopo il ricovero per Covid-19, evidenzia Maxime Taquet, docente di Psichiatria a Oxford che ha condotto lo studio, “queste persone sono più a rischio di conseguenze a lungo termine”, con un impatto sulla capacità di lavorare.
Con KP.3.1.1 il Covid torna a farsi sentire
L’importanza di ottimizzare le strategie di cura e trattamento è ancor più evidente ricordando che il Covid non è stato eradicato, ma semplicemente si è entrati nella fase endemica di convivenza col virus nella società civile.
In altri termini, la malattia, come tante altre, continua a circolare, anche se non sembra in grado di provocare nuove situazioni di emergenza come quelle vissute a partire da inizio 2020.
Il numero di contagi, dunque, è destinato a oscillare tra fasi più tranquille e altre di impennata.
Attualmente, in Italia, si sta vivendo una di queste ultime, visto che il più recente bollettino pubblicato dal Ministero della Salute, relativo alla settimana dal 25 al 31 luglio, ha fatto segnare 17 mila nuovi casi, con un incremento del +26% rispetto alla settimana precedente. A circolare sono diverse sottovarianti di JN.1, con in particolare una crescita del lignaggio KP.3.1.1.
Alberto Minazzi