Le sedi “esotiche” delle grandi multinazionali, in Paesi da considerarsi veri e propri paradisi fiscali, presto potrebbero non servire più ai “Paperoni” dell’economia mondiale per eludere una tassazione più pesante dei loro elevati profitti.
L’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha infatti annunciato il raggiungimento a stragrande maggioranza (136 Paesi su 140) di un accordo globale per l’istituzione di una “minimum tax”.
Il provvedimento finalizza l’intesa politica per la riforma delle regole fiscali del pianeta già raggiunta a luglio.
Insieme per la minimum tax
A firmare il documento sono stati, tra gli altri, tutti i Paesi del G20 e quelli dell’Unione Europea, compresi Irlanda, Estonia e Ungheria, in passato a lungo contrari.
Le sole eccezioni restano, al momento, Kenya, Nigeria, Pakistan e Sri Lanka, ma è rappresentato, sottolinea l’Ocse, oltre il 90% del Pil mondiale.
L’accordo sarà ora illustrato nei dettagli in particolare in due imminenti appuntamenti di rilevanza internazionale: la riunione dei ministri delle Finanze del G20 a Washington del 13 ottobre e il vertice di Roma dei leader del G20 in programma per fine mese.
La Global corporate tax per le multinazionali
Dal 2023 la “Global corporate tax” si applicherebbe alle entrate di tutte le grandi aziende, in qualsiasi Stato abbiano la loro sede legale, con un’aliquota minima di tassazione al 15%, da pagare nelle nazioni dove è effettivamente svolta l’attività, a prescindere dalla loro presenza sul territorio.
L’introduzione della minimum tax, quantifica l’Organizzazione, consentirebbe una redistribuzione di più di 125 miliardi di dollari da un centinaio tra le multinazionali più grandi e redditizie. Perché l’obiettivo dell’accordo, ha precisato sempre l’Ocse, non è quello di porre fine alla concorrenza fiscale, bensì quello di “porre dei limiti convenuti multilateralmente”.
Colossi del web e tasse
A essere interessate sarebbero tutte le grandi multinazionali, ma, in particolare, i colossi dell’e-commerce (come Amazon o Ebay)e le principali società che gestiscono siti e servizi su internet (da Google, a Facebook, a Netflix).
Un rapporto specifico del Centro studi di Mediobanca aveva calcolato che, attraverso tecniche di “ottimizzazione fiscale” che hanno permesso loro di muoversi comunque all’interno delle norme, le principali tra queste società, tra il 2015 e il 2019 erano riuscite a “sottrarre al fisco” circa 46 miliardi. E, nel 2019, a fronte di ricavi per 3,3 miliardi, le tasse pagate in Italia erano state solo 70 milioni, con il paradosso di Netflix: appena 6 mila euro.
Le regole e le prospettive in Italia
Nemmeno la web tax, in vigore nel nostro Paese a partire dal 2020, è poi riuscita a produrre i risultati ipotizzati. L’ aumento di entrate stimato puntava a un introito di 780 milioni di euro.
Come illustrato a maggio dal ministro Daniele Franco alla Camera, il gettito si è invece fermato a 233 milioni di euro.
Dalla Digital tax (3%) alla Global tax (15%)
La digital tax italiana, che prevede un’aliquota del 3% sui ricavi imponibili dei soggetti che prestano servizi digitali con almeno 750 milioni di euro di fatturato e ricavi non inferiori a 5,5 milioni, si continuerà comunque ad applicare fino a quando entrerà in vigore la global tax. Una novità da cui, secondo le stime dell’Osservatorio fiscale europeo, dovrebbero derivare per le casse pubbliche italiane 2,7 miliardi di euro in più.
Alberto Minazzi