Cinque. Come i Mori che sono stati costruiti. E come i giorni che mancano al nuovo ruggito. Il Moro di Venezia torna a solcare le acque mettendosi in gara. Sconta il fatto di avere una certa età tra i 200 yacht che nel fine settimana vedremo veleggiare in laguna.
Ma resta il Moro di Venezia, lo scafo che ha fatto sognare l’Italia intera in quel lontano 1992 che è rimasto nel cuore di tutti. Non solo degli amanti della vela ma di tutti coloro che, nel leone rosso, hanno riscoperto una delle attività sportive più legate al nostro territorio.
Mentre quindi attendiamo la “Venice Hospitality Challenge” di sabato 19, la 12esima edizione della “Veleziana” ( domenica 20) organizzata dalla Compagnia della vela e la “Veleziana Dinghy Cup promossa dalle associazioni Velica Lido e Italiana Classe Dinghy 12, Metropolitano.it dedica un ricordo particolare al mitico Moro di Venezia, sul quale, nella prossima uscita della nostra rivista di dicembre, potrete leggere inediti approfondimenti.
Il Moro di Venezia: storia della barca che regalò un sogno agli italiani
Era il 1992 e mentre negli stadi il Milan volava verso il suo dodicesimo scudetto, dall’altra parte del mondo, a nove ore di fuso orario di differenza, altre competizioni infiammavano il cuore degli italiani: quelle dell’America’s Cup. A dar battaglia nelle acque californiane uno scafo rosso con un leone dorato stilizzato su scafo e vele. Era il Moro di Venezia. Fu la prima barca non anglofona a vincere la Luis Vuitton Cup, conquistando il diritto a sfidare la detentrice della Coppa America. Una barca che riuscì a diventare “mito” e a fare la storia.
Certo, l’avventura del Moro non sarebbe iniziata senza Raul Gardini, uomo tra i più determinati e potenti dell’epoca. Gardini volle costruire uno scafo veloce, anzi il più veloce di tutti. E ci riuscì.
La sfida
Fu verso la fine degli anni ’80 che Raul Gardini si presentò a Giulio Donatelli, l’allora presidente della Compagnia della Vela di Venezia, per comunicargli l’intenzione di costruire uno scafo e partecipare alla Coppa America. Gli chiese di poter essere rappresentato dal suo Yacht Club e di issarne a dritta il suo guidone sociale. Donatelli in principio pensava fosse uno scherzo ma alla fine accettò la sfida, consapevole che da quel momento in poi la Compagnia della Vela si sarebbe affermata a livello mondiale. Fu così che il Moro di Venezia regatò con la bandiera del Leone di San Marco, un leone più agguerrito che mai.
Gli uomini che fecero l’impresa
Le immagini delle sfide nelle acque di San Diego per molti sono ancora nitide, come pure le emozioni vissute in quelle notti magiche. Nell’avveniristico pozzetto del Moro di Venezia V, numero velico ITA – 25, spiccava un giovane riccioluto dagli inconfondibili baffi scuri. Era il timoniere Paul Cayard, il ventinovenne californiano campione mondiale della classe Star, che per poter regatare sul Moro prese la residenza italiana. Dopo selezioni durissime le 16 persone dell’equipaggio erano il meglio di cui la vela italiana potesse disporre all’epoca; un gruppo preparatissimo e molto affiatato tra cui Tommaso ed Enrico Chieffi, Cico Rapetti, Max Procopio, Andrea Mura, Dudi Coletti, Marco Schiavuta, Alberto Fantini, Lorenzo Mazza e Sergio Mauro.
A poppa c’era lui, Raul Gardini, quello che le cronache ribattezzarono “17esimo uomo”.
Una cosa impossibile fino al 1991, ma tanto era potente il ravennate che aveva fatto aggiungere una clausola ai regolamenti della Coppa per cui l’armatore poteva stare a bordo. Le regate al cardiopalma nelle acque di San Diego appassionarono milioni e milioni di italiani che improvvisamente divennero esperti negli sport velici. Incollati allo schermo della TV e grazie agli appassionanti commenti di Cino Ricci, al bar e in ufficio non si parlava più di calci di rigore e fuori gioco ma di bordi e boline, alberi e rande, gennaker e bompressi.
Un sogno nato in laguna
Cinque gli scafi costruiti per il progetto Moro di Venezia, tutti usciti dai cantieri Tencara di Porto Marghera. L’ambizioso progetto di Gardini poteva godere di un budget astronomico (qualcuno parla di oltre 100 miliardi delle vecchie lire ma c’è chi sostiene siano stati molti di più) e del supporto del team di ricerca e sviluppo messo a disposizione dalla “sua” Montedison. Per portare a casa l’America’s Cup, Gardini non badò a spese.
Il progettista era ancora l’argentino German Frers (che aveva già firmato per Gardini altri Maxi yacht) assistito da Robert Hopkins Jr.
Il portoghese Fernando Sena divenne invece il responsabile dei cantieri di Porto Marghera, allestiti anche questi a tempo di record.
A loro si affiancarono Claudio Maletto, Roberto Biscontini, Giovanni Belgrano, i velai Guido Cavalazzi (già progettista delle vele di Azzurra) e Davide Innocenti, solo per citarne alcuni.
Materiali e tecnologie all’avanguardia permisero di costruire scafi ultra veloci e vele performanti. I Mori di Venezia erano siluri azionati dalla forza del vento e manovrati da esperti velisti.
Il “battesimo” del Moro di Venezia I
Quella mattina faceva freddo e c’era parecchia nebbia. Gardini aveva scelto di varare il Moro di Venezia I domenica 11 marzo 1990 e, come gli si addiceva, organizzò l’evento in grande stile. Davanti a Punta della Dogana venne allestito un pontile lungo quaranta metri per i circa cinquemila ospiti. Ennio Morricone scrisse la musica mentre la regia fu affidata a Franco Zeffirelli.
Quel varo lasciò tutti a bocca aperta e ancora oggi molti lo ricordano come il più spettacolare della storia della vela. Quando l’enorme gru posò sulle acque della laguna lo scafo rosso in kevlar e carbonio lungo circa 23 metri, numero velico ITA-01, ci fu un’ovazione. Tuttavia si trattava di una barca “prova”, perchè era il primo yacht al mondo costruito secondo le regole della nuova classe I.A.C.C., introdotte dall’Organizzazione dell’America’s Cup per disputare la 28.a edizione della coppa (fino al 1987 si correva con i 12 metri).
La Luis Vuitton Cup del ’92: il ruggito del Moro
Per sfidare il Defender, vale a dire il detentore dell’America’s Cup, bisognava prima vincere le regate di selezione della Louis Vuitton Cup.
Nel 1992 il Moro di Venezia dà battaglia e giunge in finale con la fortissima NewZealand. Gli italiani seguivano l’evento da casa, le telecronache si aprivano con la voce di Pavarotti che incitava il nostro Leone sulle note della Turandot e della celebre aria “all’alba vincerò”.
Chi non era grande esperto di vela imparò una nuova parola, anzi LA parola: bompresso. Di questo si parlava nella primavera del 1992, del bompresso montato sulla prua di New Zealand, degli elicotteri che sorvolavano i campi di regata e delle fotografie grazie alle quali si scoprì “l’anomalia” dello scafo dei kiwi. Furono match race estenuanti, guerra di carte bollate, stress, qualche strategia sbagliata, ma il Moro di Venezia V allungò gli artigli, mostrò i denti e vinse 5 a 3. Il mito era nato. Il Moro di Venezia poteva sfidare il defender dell’America’s Cup.
America’s Cup 1992
Da una parte Gardini con il Moro di Venezia V, dall’altra il magnate Bill Koch con America 3.
Nella baia di San Diego si sfidarono due uomini potenti e pronti a tutto pur di portare a casa la vittoria. Entrò in scena addirittura lo spionaggio, nonostante le barche fossero ben ben impacchettate – qualcuno ricorderà le famose “mutande” alle chiglie – per non mostrarsi agli sfidanti.
Si dice che durante la Luis Vuitton Cup gli americani costruirono mini sommergibili, assoldarono sommozzatori, noleggiarono elicotteri, e tutto per “passare ai raggi x” Il Moro di Venezia e trovarne i punti di debolezza e batterlo. Ma si capì subito che la lotta era impari, lo scafo bianco era più veloce. e infatti alla fine vinse con un secco 4 a 1. Era il 16 maggio del 1992.
E a Venezia fu “Moromania”
Per Venezia, il Moro aveva comunque vinto.
I successi inanellati regata dopo regata cominciarono a esaltare non solo i velisti ma un po’ tutti. L’euforia contagiò giovani e meno giovani, imprenditori, politici, uomini di cultura. “Fu per scherzo che una sera a casa di amici nacque l’idea di un fans club – racconta Raffaele Bonivento, uno dei fondatori -. Il Moro era riuscito a unire di nuovo la città, tutti ne parlavano, era diventato la nuova Italia per cui tifare. “La prima serata di regate venimmo ospitati nella sala di un hotel, eravamo circa una trentina. La volta successiva approntammo un maxischermo a Palazzo Malipero, eravamo già 250, altrettanti vennero lasciati fuori. Fu un crescendo e neppure noi ci rendemmo conto di quanto la città avesse bisogno di credere in un sogno”. L’iniziale gruppetto alla fine della Coppa America contava migliaia di iscritti. E aveva l’attenzione dei media, dai giornali locali a El Pais fino alla CNN. “L’allora sindaco di Venezia, Ugo Bergamo, ci diede il sostegno del Comune aprendo le porte dell’ex chiesa di San Leonardo – ricorda ancora Raffaele -. Quando il Moro di Venezia tornò a casa, in laguna, lo accogliemmo con orgoglio, il Leone di San Marco si era battuto con onore. Il fans club era in bacino per accoglierlo e osannarlo. Affittammo il Burchiello e organizzammo una festa grandiosa per accogliere l’equipaggio e festeggiarlo”.
Un momento indescrivibile l’abbraccio di centinaia di imbarcazioni a remi al nostro Moro di Venezia in bacino San Marco vincitore della Luis Vuitton Cup. Un bellissimo ricordo che l’articolo mi ha fatto rivivere.
Il sogno veneziano! Sembrava di essere tornati ai tempi della Serenissima: tutti uniti al seguito del LEON! Sogno che dobbiamo a quel grande “campagnolo” di Gardini, nel cuore più veneziano e sognatore di tutti! Chissà che non ci risvegliamo ancora con la voglia di ritrovare la grandezza e la voglia di lottare di un tempo! W SAN MARCO. W IL MORO!
io ho fatto le foto della festa del Moro il 7 giugno 1992 dove c’erano Paul Cayard, Aga Khan, Giovanni Agnelli con Raul Gardini e tanti altri