Si cerca di capire quale sia l’origine dell’infezione emersa tra Regno Unito, Irlanda e Spagna
I virus dell’epatite sono 5, classificati con le lettere da “A” a “E”, ma nessuno di questi, come emerso dai primi testi di laboratorio, sarebbe all’origine dell’ondata della malattia in forma acuta grave registrata in un’ottantina di casi di bambini sani sotto i 10 anni tra Regno Unito, Irlanda e Spagna. Ed emergono i primi casi (9, tra 1 e 6 anni) anche negli Usa, in Alabama.
Un vero e proprio mistero, insomma, su cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avviato un monitoraggio per sondare le cause e l’origine, ancora sconosciuta, di un fenomeno che ha fatto scattare un nuovo campanello d’allarme sanitario in Europa.
Cosa sta succedendo
La prima segnalazione di 10 casi di epatite acuta grave in bambini tra 11 mesi e 5 anni, proveniente dalla Scozia centrale, è arrivata all’Ufficio regionale europeo dell’Oms il 5 aprile.
I sintomi (ittero, diarrea, vomito e dolore addominale) si erano verificati in 9 casi a marzo e il decimo addirittura a gennaio. I bambini sono stati ricoverati in ospedale, ma come precisa l’Oms, alla data dell’11 aprile non si è verificato nessun decesso collegato.
Tre giorni dopo la comunicazione dalla Scozia, i casi rilevati dai laboratori del Regno Unito sono arrivati a 74. A questi se ne sono quindi aggiunti altri 5 in Irlanda e 3, nella fascia tra 22 mesi e 13 anni, in Spagna. È comunque possibile che i casi, risalendo l’ultimo aggiornamento a 10 giorni fa, siano già di più. E “dato l’aumento dei casi segnalati nell’ultimo mese e il potenziamento delle attività di screening” ammette l’Oms “è probabile che nei prossimi giorni verranno segnalati più casi”.
Misure preventive e sequenziamento dell’epatite
Se le autorità dei Paesi in cui si sono registrati i casi stanno già indagando, l’Ufficio europeo dell’Oms ha comunque fortemente raccomandato a tutti gli Stati di “identificare, indagare e segnalare i potenziali casi“.
Al momento non è stata invece suggerita nessuna restrizione ai viaggi verso Regno Unito, Irlanda e Spagna. “A oggi non sono stati identificati altri fattori di rischio epidemiologico, compresi recenti viaggi internazionali dei pazienti”.
Tra le ulteriori indagini attualmente in corso “per comprendere l’eziologia di questi casi”, uno dei temi di particolare attenzione è il possibile collegamento al Covid, visto che, precisa l’Oms, “alcuni pazienti siano risultati positivi al Sars-CoV-2 o all’adenovirus”, di cui è stato recentemente osservato un aumento dell’attività nel Regno Unito.
Un collegamento con l’adenovirus è stato rilevato anche dai Cdc americani per i casi dell’Alabama. Il possibile ruolo di questi agenti patogeni nello sviluppo dell’epatite, però, non è ancora chiaro. “È necessario intraprendere la caratterizzazione genetica dei virus – sottolinea l’Oms – per determinare eventuali associazioni tra i casi”.
Epatite: cosa c’è da sapere
I test dell’Oms stanno valutando il possibile ruolo anche di ulteriori infezioni, di sostanze chimiche o tossine. Al momento, il dato sufficientemente certo è solo l’esclusione del collegamento con i 5 virus maggiori (A, B, C, D, E) che provocano le epatiti virali, a oggi ancora uno dei principali problemi di sanità pubblica a livello mondiale.
I dati Oms riportati dall’Istituto Superiore di Sanità ricordano infatti che nel 2020, 325 milioni di persone nel mondo vivono con un’infezione cronica da epatite B (257 milioni, di cui solo il 10% ne è consapevole) o C e 1 milione e 300 mila persone muoiono ogni anno a causa delle complicazioni a livello epatico causate dalle infezioni.
Basti pensare che, nel 2016, il solo virus dell’epatite A (contro cui esiste un vaccino) ha causato 7 milioni e 134 mila decessi a livello mondiale. I principali fattori di rischio sono rappresentati dai viaggi in zone endemiche e da consumo di alimenti (soprattutto frutti di mare) o acqua contaminati.
Nel 2015 le morti per le conseguenze dell’epatite B (anche in questo caso prevenibili con un vaccino) sono invece stimate in circa 887 mila.
Il virus può essere trasmesso attraverso il contatto con sangue o altri fluidi corporei. L’80-90% circa dei bambini che contraggono l’infezione nel primo anno di vita cronicizzano, mentre più del 90% dei soggetti che contraggono l’infezione in età adulta guariscono entro sei mesi dall’insorgenza dei sintomi.