Gli studi di una ricercatrice italiana a New York aprono a possibili nuove cure per le malattie neurodegenerative
La si potrebbe ribattezzare “la proteina della memoria”, perché è probabilmente da questo ormone proteico, che assomiglia strutturalmente all’insulina, che deriva la nostra maggiore o minore capacità di ricordare. Tant’è che la sua carenza nel cervello, nel siero o nel liquido cerebrospinale si associa a malattie cerebrali neurodegeneratve come il morbo di Alzheimer, il morbo di Parkinson, il morbo di Huntington e la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), ma anche schizofrenia, autismo e Angelman.
Da circa un decennio, le ricerche svolte su quello che, tecnicamente, è chiamato “fattore di crescita insulino-simile 2” (abbreviato nell’acronimo Igf2) ne hanno identificato il contributo fondamentale ai processi di memoria. Ma il lavoro degli scienziati da allora non si è fermato. E adesso i risultati, pubblicati su Nature, di un nuovo studio condotto dall’italiana Cristina Alberini, professoressa di Neuroscienze alla New York University, aprono anche a importanti prospettive per il suo utilizzo in cura e prevenzione.
La proteina che salva la memoria
Il fattore sierico Igf2 è stato per anni poco studiato e, soprattutto, inizialmente solo nella prospettiva del ruolo svolto nella crescita dei tessuti e, di conseguenza, anche per l’importanza che può avere nello sviluppo e nella soppressione dei tumori. A restare a lungo poco chiara, per gli scienziati, è stata in particolare la spiegazione del perché i livelli di questa proteina rimangano relativamente elevati, nel cervello, per tutta la vita dell’essere umano. Da quando è emerso il collegamento con la memoria, si sono però moltiplicati gli studi sul fattore volti a raccogliere informazioni sul ruolo unico che svolge nelle funzioni cerebrali e nelle sue disregolazioni.
Lo studio di Alberini “Igf2 nella memoria, disturbi dello sviluppo neurologico e malattie neurodegenerative” ha provato quindi ora a capire quali siano i disturbi collegati ad alterazioni della proteina, i meccanismi alla base degli effetti di Igf2 in questi contesti e soprattutto se vi siano malattie che possano beneficiare di trattamenti con la molecola. Ed è emerso, innanzitutto, che l’aumento di Igf2 nell’ippocampo, durante l’apprendimento, è fondamentale per la creazione di una memoria a lungo termine, che invece non si forma se si blocca questo aumento.
La memoria dei topi
Il modello concettuale dei meccanismi di azione di Igf2 nel sistema nervoso centrale, sano o malato, delineato dalla ricercatrice, formatasi all’Università di Pavia e ora responsabile di un laboratorio al Dipartimento di Neuroscienze della Mount Sinai School of Medicine di New York, si basa sugli studi effettuati su roditori, che hanno dimostrato, con la somministrazione della molecola, di ricordare più a lungo ed evitare situazioni di pericolo già vissute. La stessa Cristina Alberini ha fondato quindi una start-up per portare avanti le ricerche sul fattore di crescita insulino-simile nell’essere umano, per arrivare a dimostrare la sua efficacia di funzionamento ai fini di miglioramento della memoria anche nell’uomo.
Perché i risultati ottenuti nei topi sono davvero incoraggianti. “Igf2 – premette lo studio – è necessario per la formazione della memoria. L’aumento dei livelli di Igf2 migliora la memoria negli animali sani”. Questo, va chiarito, purché la proteina sia somministrata nelle fasi attive dell’apprendimento. “La sua somministrazione – prosegue – favorisce il potenziamento della memoria. L’aumento dei livelli inverte numerosi sintomi nei modelli di laboratorio di invecchiamento, disturbi dello sviluppo neurologico e malattie neurodegenerative”. “Con una semplice iniezione – riassume la studiosa – siamo in grado di creare memorie più forti e durature”.
Il meccanismo e le prospettive di cura per l’uomo
Gli effetti prodotti dalla proteina si verificano, spiega lo studio, tramite il recettore Igf2R, che svolge un importante ruolo di regolazione nell’organismo. “Suggerisco – aggiunge con termini scientifici – che Igf2R controlli le reti di traffico endosomiale neuronale, regolando così l’ordinamento, il riciclaggio, la sintesi e la degradazione delle proteine”. In tal modo, l’introduzione della molecola nel circolo sanguigno ha consentito ai ricercatori di riscontrare ottimi risultati nel trattamento di diversi disturbi patologici.
La somministrazione di Igf2, infatti, “migliora numerosi sintomi in modelli animali di malattie del neurosviluppo e neurodegenerative, la maggior parte delle quali sembra avere l’accumulo di proteine nel cervello come comune denominatore”. “Negli esseri umani – conclude lo studio – livelli alterati di Igf2 cerebrale o circolante accompagnano le malattie neurodegenerative, suggerendo un ruolo importante per Igf2 nel mantenimento della salute del sistema nervoso centrale e di funzioni cerebrali efficienti”.
Alberto Minazzi