Il regista bolognese annuncia un suo nuovo film girato sul litorale che rinnoverà il suo legame con Venezia e il suo mondo cinematografico
Nelle valli della laguna veneziana ho girato nel passato alcuni film horror che ancora oggi mi danno grande soddisfazione».
A Venezia per tenere una masterclass sulla recitazione organizzata da Running tv e Lab.Cine.Arte, il regista bolognese Pupi Avati, uno dei “decani” del cinema italiano, racconta il suo rapporto con Venezia, svelando una interessante novità: «C’è un progetto per tornare a girare a Venezia. Proprio in occasione di questo viaggio, mi sono incontrato con l’assessore alla Cultura della Regione e un mio collaboratore ha già fatto dei sopralluoghi a Lio Piccolo. L’idea è di ambientarci una storia gotica negli anni Settanta. Sarà anche un’opportunità per il territorio perché, a parte i capisquadra, sfrutteremo le professionalità locali. E questo vale anche per gli attori, visto che cercheremo il cast in luogo e non solo per quanto riguarda i ruoli marginali. Il film avrà un’altra caratteristica particolare: quella di essere girato in pellicola, come un tempo. Sono molto eccitato, perché in qualche modo si chiude un cerchio e si ritorna all’essenziale: pensare una storia e fissarla sulla pellicola. Del resto non c’è alcun legame diretto tra il budget e il risultato artistico di un film. Anzi, credo che quelli che mi sono riusciti meglio siano proprio quelli in cui abbiamo dovuto lavorare in emergenza e aguzzare l’ingegno».
La masterclass tenuta a Venezia è stata quindi un’opportunità anche per trovare nuovi volti che potrebbero poi essere coinvolti in questo progetto. «In dodici ore non è naturalmente facile dare dei giudizi, però la comparazione con gli altri è sicuramente molto utile per rendersi conto delle proprie capacità. Perché attori si è, non si diventa. Tutti abbiamo un talento, ma è scoprire qual è quello giusto la cosa difficile: è come trovare il Santo Graal. Per molti, fare l’attore è un sogno; ma è un lavoro difficile e frustrante, per cui è fondamentale essere onesti, soprattutto verso se stessi, e cercare di capire se c’è davvero la stoffa per farcela senza gettar via il proprio tempo e le proprie aspirazioni. È una responsabilità verso la propria identità. Da giovane, il mio sogno era fare il musicista: amavo la musica, studiavo come un matto, ma ad un certo punto mi sono reso conto che la musica ricambiava qualcun altro più di me (a sostituire Avati che suonava il clarinetto in una jazz band fu un certo Lucio Dalla, ndr). Realizzare questa verità mi permise di trovare la mia strada e credo che ognuno meriti di essere aiutato con onestà in questo percorso, perché ognuno ha diritto a lasciare una traccia di sé».
La grande partecipazione di aspiranti attori alla due giorni veneziana dimostra comunque che questa passione per la recitazione è ancora molto sentita. «Nonostante la crisi del cinema e il fatto che le sale cinematografiche non solo si svuotano, ma vengono anche demolite, la gente che vuole fare cinema in realtà aumenta. Questo perché il cinema lo si consuma sempre di più. Magari non più nella sala, ma attraverso altri strumenti, come i dvd e le piattaforme digitali, e quindi si continua a fare il cinema e i ragazzi continuano a sognare di fare gli attori».
Per Pupi Avati, Venezia significa anche Mostra del Cinema, a cui il regista ha partecipato nove volte, ma a cui negli ultimi tempi non ha risparmiato critiche. «Una volta, vincere un premio ad un festival era importante, dava autorevolezza. La Coppa Volpi vinta da Silvio Orlando per il “Papà di Giovanna” ha cambiato le sorti del film, decretandone il successo. Ora è quantomeno inutile. Io, onestamente, non saprei dire chi ha vinto il Leone d’Oro l’anno scorso: proprio non me lo ricordo. Il problema è che, nell’ultimo decennio, si è perso il rispetto del pubblico, perché a fare da protagoniste non sono più le pellicole ma le giurie, che preferiscono premiare il film più strano, che lascia intendere quanto loro siano “alternativi”, piuttosto che gratificare il film più bello. Ho provato a parlarne con il direttore della Biennale, Barbera, ma non ha voluto seguirmi su questa strada. Per non parlare poi del fatto che i film italiani sono contrastati dalle lobby e sono vittime delle lotte di cortile».