Il momento storico che stiamo vivendo, la fase 2 delle politiche di contenimento del COVID-19, ci porta ad affrontare un tipo di stress nuovo perché, se è vero che anche prima del Coronavirus era già diffusa ad esempio una grande incertezza economico finanziaria, la pandemia ci ha catapultati improvvisamente in uno scenario surreale dove vi è una ancora maggiore difficoltà nel prevedere il nostro futuro a breve e medio termine.
Questa nuova emergenza sanitaria nel tempo si trasformerà sempre più in un prolungato periodo di semi-emergenza sanitaria con un notevole impatto sia in termini psicologici che sociali ed economici.
Questo scenario è inedito per la combinazione di fattori sia squisitamente biologici che strettamente psicologici.
Da una parte infatti, sappiamo che la causa di questa pandemia è un virus con la capacità di infettare velocemente nel giro di pochi giorni centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, dall’altra siamo sempre più consapevoli che il comportamento di altri individui e le politiche adottate da intere comunità e nazioni, possono determinare la nostra salute (purtroppo anche in termini di sopravvivenza) oltre a poter cambiare la qualità della nostra vita intesa anche dal punto di vista professionale ed economico.
La consapevolezza di essere tutti all’interno di uno scenario molto complesso e interconnesso, da una parte ci induce un senso di fragilità e vulnerabilità nei confronti di qualcosa che individualmente sappiamo di poter controllare solo in parte, dall’altra ci spinge a comprendere la necessità di agire collettivamente per ridurre il rischio di essere contagiati.
La consapevolezza di questa duplice realtà quasi paradossale induce in noi uno stress con il quale dovremo convivere almeno per parecchi mesi e che, se non gestito adeguatamente, potrà compromettere la nostra salute e la nostra qualità di vita.
Il comportamento psicosociale adottato da intere nazioni in questi mesi ci testimonia infatti che, da un lato il meccanismo di difesa nella prima fase di allarme Coronavirus è di chiusura nei confronti di ciò è “fuori” dai propri confini (per guadagnare maggiore controllo della situazione), dall’altro ci rendiamo sempre più conto che la nostra salute dipende dalla capacità globale di condividere collettivamente regole e comportamenti.
In genere più questa condivisione è uniformemente accettata ed applicata all’interno della comunità (o delle comunità di riferimento) maggiore sarà il grado di efficacia delle politiche di contenimento del virus perché il Coronavirus non fa distinzione di colore della pelle, nazione, latitudine o stato socioeconomico.
Contrariamente a tutte le altre situazioni emergenziali che l’attuale nostra società ha già conosciuto nell’ultimo secolo (pensiamo ad esempio ai numerosi terremoti, acque alte, trombe d’aria e situazioni simili) dove l’aiuto e la cooperazione fisica tra le persone è il modo più naturale e spontaneo per fronteggiare queste circostanze, nel caso della pandemia la strategia più efficace, almeno nella prima fase, richiede di limitare più possibile i contatti sociali fisici.
Stare lontani fisicamente gli uni dagli altri è una vera e propria sfida per le persone che invece hanno tra i bisogni fondamentali (al pari di mangiare, muoversi e dormire) anche quello di coltivare la socialità e il sentirsi parte di una comunità che condivide esperienze, abitudini e tradizioni. Oltre alla limitazione di libertà percepita e l’elevata incertezza del futuro che ci aspetta, il distanziamento sociale è quindi uno dei fattori che determinano più fortemente la nostra qualità di vita quotidiana e la nostra salute.
Per questo motivo, tematiche quali la gestione psicologica dello stress e il riuscire a coltivare una sana socialità anche in assenza di presenza fisica attraverso le nuove tecnologie comunicative, saranno aspetti sempre più importanti per vivere a pieno sia il presente che il domani della nostra società.
La pandemia sta segnando la nostra nuova realtà sia psicologica che sociale che economica e, proprio per questo, dovremo governare efficacemente questa situazione anche facendo tesoro dagli esempi positivi offerti da coloro che hanno fronteggiato bene nel presente e nel passato contesti emergenziali simili.
Il territorio veneziano, lungo la sua millenaria storia, ha già conosciuto numerose volte l’impatto delle malattie epidemiche e delle politiche adottate per contrastarle. Come sappiamo lo stesso termine quarantena è stato coniato dai veneziani nel XIV secolo proprio per indicare il complesso sistema messo in atto per difendere dalla peste i cittadini dirottando le persone e le merci delle navi commerciali in arrivo nell’ isola del Lazzaretto Nuovo per quaranta giorni.
Più tardi nel 1423, dovendo contrastare un’altra epidemia il Senato della Serenissima creò per la prima volta al mondo, una struttura specificamente dedicata alla cura e all’isolamento dei malati di peste nell’isola del Lazzaretto Vecchio.
In un recente articolo scritto dal prof. Phil Zimbardo (Stanford University) ed io abbiamo citato la politica veneziana che introdusse la quarantena come esempio paradigmatico di eccellente politica di contenimento della pandemia perché le istituzioni dell’epoca decisero di sacrificare gli immediati ed allettanti interessi economici derivanti dagli scambi commerciali marittimi al fine di salvaguardare la salute dei cittadini veneziani.
La scelta lungimirante effettuata dalla Serenissima non fu facile, anzi fu molto coraggiosa politicamente perché molto impopolare visto lo svantaggio economico iniziale che comportava, ma facendo così riuscì a limitare l’epidemia e le sue conseguenze negative anche economiche a medio e lungo termine.
La storia di Venezia ci dimostra che a livello politico per affrontare efficacemente un’emergenza biologica come l’epidemia occorre inizialmente essere molto orientati verso il futuro piuttosto che preservare i vantaggi presenti nell’immediato. Un po’ come in un noto esperimento di psicologia (esperimento dei “marshmallows”) dove ci sono bambini che preferiscono aspettare qualche minuto per poter poi mangiare due caramelle anziché solo una mentre gli altri decidono di non pazientare gustandosi l’unica caramella disponibile, esistono delle persone e delle istituzioni caratterizzate dall’essere più orientate al futuro piuttosto che al presente e viceversa (il cosiddetto orientamento temporale psicologico).
Come previsto dalla cosiddetta Prospettiva Temporale psicologica concettualizzata dal prof. Zimbardo, per gestire al meglio una pandemia sarebbe auspicabile che l’orientamento temporale dei decisori, di chi quindi crea le politiche di contenimento del virus, fosse fortemente orientato verso il futuro perché solo così si evita di sottovalutare il rischio presente e si valutano correttamente le conseguenze nel medio e lungo termine.
Probabilmente non è un caso che Venezia sia stata un esempio positivo di eccellente gestione dell’epidemia secoli fa e che proprio in questi mesi di emergenza il Veneto, grazie alle decisioni prese dall’amministrazione Zaia insieme alla collaborazione con il virologo Andrea Crisanti, sia un riferimento a livello italiano ed internazionale nel contrastare la pandemia. Sono convinto infatti che non sia una coincidenza che proprio nel Veneto ci sia stato il primo studio al mondo che prevede l’analisi genetica di un’intera comunità (Vo’), il tracciamento virale della stessa e lo studio delle risposte anticorpali dei suoi cittadini oltre al progetto innovativo della prima banca del plasma.