La storia di Marco Berti, alpinista di Cannaregio che ha affrontato le cime più alte del mondo
Dalla Laguna, nelle giornate limpide, si vedono le Dolomiti: un suggestivo mix tra mare e monti. E da Cannaregio, zona San Giobbe, è volato verso le alte vette Marco Berti, un amore viscerale per la montagna, le cime, le arrampicate. Un veneziano che ha preferito corde e moschettoni a remi e motori, che in Nepal ha anche vissuto e che non ha ancora smesso di guardare all’insù.
«Niente di strano che un veneziano venga attratto dalle montagne. Da Venezia le vedi e così è abbastanza naturale venirne attratto. La tradizione alpinistica veneziana, infatti, era già abbastanza consolidata nella seconda metà del XIX secolo e la sezione del CAI di Venezia è sorta nel 1890. La passione per l’alpinismo è stato un percorso. I miei genitori vanno a Borca di Cadore da prima degli anni Cinquanta, quindi ho sempre respirato l’aria delle Dolomiti. Tante gite in quota, ma i miei erano lontani dal mondo del verticale. Alla fine degli anni Settanta ho iniziato, di nascosto, a giocare all’alpinista. Poi, per fortuna, sono stato scoperto e mi hanno iscritto a un corso del CAI. Il salto di qualità l’ho fatto durante il servizio militare, negli Alpini, dove ho fatto parte del corpo istruttori di alpinismo della Brigata Tridentina e della Squadra di Soccorso Alpino. In quell’occasione ho conosciuto Roberto Iacopelli di Bolzano: era il mio comandante, e poi è diventato il mio storico compagno di cordata. Al nostro primo incontro, nel chiedermi la città di provenienza, mi apostrofò con un “poro disgrasià!”. Un veneziano tra gli Alpini in Val Pusteria non era molto usuale. Terminato il servizio militare, la montagna non lasciava spazio per altre cose: l’alpinismo è diventato una scelta di vita e i territori himalayani il mondo in cui vivere. Ho sempre amato le grandi pareti ricoperte di ghiaccio, le avventure e non la scalata fine a se stessa, l’aspetto sportivo o competitivo dell’alpinismo mi interessava marginalmente, anche se non disdegnavo confrontarmi su obiettivi comuni ad altri».
Hai avuto qualcuno che ti ha ispirato? «Tra i grandi, nell’adolescenza, sicuramente Emilio Comici e gli “Scoiattoli di Cortina”. Poi Reinhold Messner: è stato un riferimento ideale. Ma poi ho avuto la fortuna di scalare e condividere l’amicizia con molti protagonisti della storia dell’alpinismo: da Sergio Martini a Allen Steck, Hervé Barmasse e ultimamente con il giovane Tom Ballard, e molti altri. Forti alpinisti, ma prima di tutto belle persone. Poi ci sono le persone speciali come Gianluigi “Gigio” Visentin e R.D. Caughron. Il primo era veneziano come me, per la precisione di Murano: tenace alpinista che ha sfiorato la vetta del K2 nel 1983 e persona che ti regalava serenità. R.D., americano, è stato come un fratello maggiore e abbiamo condiviso tante scalate sulla catena himalayana e sulla pareti della Yosemite Valley in California. Entrambi sono scomparsi su montagne nepalesi. Sono rimasti lì in alto, sotto il ghiaccio, ma sono sempre con me».
Quali sono state le prime scalate e il rapporto con le Dolomiti? «Le Dolomiti sono il profumo di casa, sono le montagne che guardano Venezia e che si ammirano da Venezia. Le prime scalate, quelle dell’adolescenza di nascosto, le ho fatte senza esperienza e tanta incoscienza sui contrafforti dell’Antelao, anche d’inverno. Poi, aumentando l’esperienza, ho affrontato le pareti che sono le pietre miliari della storia dell’alpinismo, estendendo il mio terreno di gioco sull’intero arco alpino».
Quali sono le “conquiste” che ricordi con maggior soddisfazione, le sensazioni dalle cime, qualche rischio vissuto? «Non mi piace il termine “conquista”: è più corretto e realistico il termine “esperienza”. Nel mio percorso ho provato un particolare appagamento nell’aver salito la nord del Cervino in solitaria e la nord dell’Eiger con un alpinista-globetrotter americano. Sulle Dolomiti, il più bel ricordo è una via che ho aperto in solitaria sulla parete ovest dell’Averau, mentre sulla catena himalayana, ormai venti anni fa, la nuova via diretta, sempre in solitaria, ma con un amico al campo base, sulla parete nord del Kusum Kanguru. Una cima di soli 6.400 metri di altezza, ma una parete verticale di oltre 2.000 metri. Al mio ritorno al campo base, il mio amico nepalese continuava a dirmi “Boula! Boula!”, che significa “matto”. Il rischio maggiore l’ho vissuto sul Kangchenjunga, il terzo Ottomila della terra per altezza dopo Everest e K2. Salivamo, come sempre, senza sherpa d’alta quota, senza bombole e attrezzavamo la parete con corde fisse solo nei tratti più faticosi perché il nostro zaino sfiorava i trenta kilogrammi. Ci portavamo tutto: cibo, tende, corde, abbigliamento, attrezzatura. Stavo risalendo una corda per superare uno strapiombo, ma alcuni metri più in alto, non potevo vederlo, era stata danneggiata da un sasso caduto dall’alto. Con il peso del mio corpo e dello zaino la corda si spezzò e scivolai per una decina di metri su una parete di roccia e ghiaccio aggrappandomi “stile Gatto Silvestro”. Se non mi fossi fermato, mi sarei sfracellato 800 metri più in basso sul ghiacciaio dello Yalung. Fortunatamente è andata bene. La sensazione che cerco sulle cime è il silenzio, scappo dalle montagne di moda, dai luoghi affollati. Mi piace guardarmi attorno, amo molto la cima quando le nuvole corrono veloci e più basse e coprono a tratti la valle».
Nepal, un Paese e mille emozioni… «È il sogno realizzato. Dalla seconda metà degli anni Ottanta fino al 2000 è stata, ma lo è ancora, la mia seconda casa, anche se la frequentazione di questi ultimi anni è stata più sporadica. Sin da bambino sognavo di conoscere uno sherpa, finché, dopo la prima esperienza in Nepal, sono entrato a far parte di quel mondo venendo “adottato” da una famiglia sherpa, tanto da ricevere il nome Marco Lhakpa Sherpa. Questo è il ricordo più emozionante: le montagne sono state solo lo strumento e la perfetta cornice per vivere esperienze bellissime, esperienze oltre il sogno».
Sei riuscito a trasmettere la tua passione per la montagna alle tue figlie? «Ho insegnato loro a rispettarla, a viverla come un tesoro dal quale ricavare esperienze, senza necessariamente affrontare difficili pareti. Ester, oggi ha 20 anni, da quando ne aveva 6 mi segue nelle scalate, anche se adesso la sua priorità è l’università. Agnese, 17 anni, è una gran camminatrice, ma non ha attrazione per il verticale».
Quali sono i progetti futuri? «Sto studiando alcune belle montagne di 7.000 metri dell’Himalaya nepalese. Io e la mia compagna, Caroline, ci stiamo allenando con costanza da alcuni mesi. Decideremo l’obiettivo tra qualche mese, in funzione della preparazione, perché vogliamo rispettare lo stile di sempre».
Un sogno nel cassetto? «Sono due. Il primo è ricostruire, dopo il terremoto, la scuola elementare che ho costruito nel 1997 con il supporto del Cesvitem. È molto danneggiata. Il secondo è fare una bella traversata con le mie figlie attraversando le valli e i villaggi più sperduti del Nepal, quelli non toccati dal turismo. Vorrei far vivere alle mie figlie quel Nepal antico che ho avuto la fortuna di conoscere tanti anni fa».
MARCO BERTI
Cinquantun anni, nato a Venezia, inizia ad arrampicare nel 1977 di nascosto dalla famiglia, sulle Dolomiti Cadorine e dell’Ampezzano. Ha collezionato oltre duemila scalate su tutto l’arco alpino e ha effettuato numerose altre ascensioni in Yosemite (California, Stati Unite), nel Wadi Rum (Giordania), sulla catena dell’Haraz (Yemen) e in Thailandia. Profondo conoscitore dell’area indo-tibetana, nella seconda metà degli anni Ottanta inizia un’attività alpinistica, anche esplorativa, sulla catena himalayana del Nepal, Tibet e India che proseguirà ininterrotta fino al 1999, per poi riprendere nel 2012. Attività che lo ha visto impegnato come alpinista, capospedizione e organizzatore in 26 spedizioni alpinistiche su cime tra i 6.000 e gli 8.000 metri. Padre di Ester e Agnese, che lo seguono in montagna, si sta preparando per una nuova avventura su una cima dell’himalaya nepalese con l’alpinista francese Caroline Schmitt, sua compagna di cordata e nella vita. (M.C.)