C’è una leggenda metropolitana che circola sugli alberi.
Ci rende convinti del fatto che nella nostra epoca ci siano meno verde, meno boschi e foreste rispetto agli anni che furono.
Ma non è affatto così.
Il più recente rapporto sullo stato delle foreste nel nostro Paese, infatti, rivela che esistono molte più aree boschive oggi che in passato.
“È vero: le superfici coperte da alberi in Italia continuano a crescere” conferma Tommaso Sitzia, professore associato dell’Università di Padova e specialista in selvicoltura e conservazione delle biodiversità.
Il rapporto e la crescita delle foreste
L’ultimo rapporto sullo stato delle foreste e del settore forestale in Italia, “RaFITALIA 2017-2018”, è stato pubblicato nel 2019. E sottolinea come, secondo i risultati del terzo inventario forestale nazionale del 2015, che ha fatto seguito a quelli del 1985 e del 2005, la superficie forestale complessiva in Italia sia pari a 10.982.013 ettari.
Ben 4.618.013 ettari in più rispetto agli anni ’30, per i quali la prima Carta forestale del Regno d’Italia, datata 1936, fornisce un dato indicativo di superficie forestale di 6.364.000 ettari.
Una crescita avvenuta man mano nel tempo, con un sensibile aumento registrato soprattutto negli ultimi decenni in tutte le regioni italiane. 77.960 ettari tra il 1985 e il 2005 (+0,3%), 52.856 tra il 2005 e il 2015 (+0,2%).
Un processo partito da lontano
La tendenza al rimboschimento è dunque di lungo termine, dopo secoli in cui fu necessario promulgare leggi a tutela dei boschi. Basti pensare, ad esempio, alle normative a tal scopo della Repubblica Serenissima di Venezia, fin dal secolo XIII. “È un processo – riprende Sitzia – che va avanti da molti decenni. A livello europeo, Italia compresa, la minima estensione della superficie forestale si registrò a metà del Settecento. La nuova fase di crescita dei boschi prese il via con il passaggio dall’uso massiccio di combustibile fresco e carbone ai combustibli fossili e continua tuttora”.
Quel che è cambiato negli ultimi anni, quando il fenomeno è stato maggiormente evidenziato, è allora l’approccio psicologico. “Adesso – riprende il ricercatore – anche chi vive nelle grandi città è più sensibile a questi cambiamenti dell’ambiente. Prima, si trattava di fenomeni evidenti solo a chi viveva in montagna. E questo si lega anche ai messaggi lanciati da una parte del mondo economico, quella dell’agricoltura e degli operatori legati al settore primario, che sperimenta in modo diretto questi fenomeni”.
Il rovescio della medaglia
Come tutti i cambiamenti, anche l’aumento delle superfici forestali comporta infatti pro e contro. E si contrappongono due visioni diametralmente opposte. Da un lato quella “urbana”, che punta a impiantare sempre più alberi. Dall’altro quella “montana”, che invece ha l’obiettivo di recuperare sempre più ambienti aperti, come prati e pascoli. “L’aumento della copertura forestale è avvenuto prevalentemente per colonizzazione spontanea di aree agricole marginali a seguito dell’abbandono colturale”, sottolinea lo stesso rapporto del 2019.
Il “paradosso” rispetto all’idea comune
“La grave crisi dell’agricoltura non solo italiana – conferma Sitzia – ha fatto sì che vaste superfici non più coltivate siano tornate al bosco. Lo stesso settore turistico, col tempo, ha preso coscienza del problema. E non solo perché le opere di manutenzione di manufatti abbandonati hanno un costo. Ci sono paesi dell’arco alpino invasi dai boschi, che hanno perso il loro aspetto paesaggistico caratterizzante. E non si tratta solo di questioni estetiche, ma anche naturalistiche, visto che si rischia di perdere parte della biodiversità legata all’intervento dell’uomo sull’ambiente”.
Alla ricerca dell’equilibrio
Anche le convenzioni internazionali, sottolinea il professore, giocano un ruolo fondamentale nella ricerca di un punto di equilibrio tra le due diverse visioni. “Il protocollo di Kyoto – spiega– premia l’aumento dei boschi. Questo, dal punto di vista psicologico, porta sicuramente più attenzione al tema degli alberi in generale, ma spinge a volerne sempre di più. C’è poi l’Unione Europea che investe sulle zone rurali, sugli ambienti aperti e sull‘agricoltura. Così, negli ultimi anni, si è assistito anche all’inversione di tendenza, che ha portato numerosi animali attorno alle città, come le greggi di pecore lungo gli argini dei fiumi. In realtà -conclude Sitzia – quando si pianificano politiche ambientali, è il paesaggio che va preso in considerazione nel suo insieme: boschi, pascoli, prati e gli stessi insediamenti urbani, purché rispettino alcuni parametri.
I boschi e le città
Un altro aspetto poco conosciuto è legato al fatto che, se il fenomeno dell’aumento della superficie boschiva è più evidente nelle zone montane, nemmeno le aree più urbanizzate sono escluse. “Nelle città e nelle zone circostanti – riprende l’esperto – si nota e si sottolinea di più la cementificazione. Ma, sia pur meno visibile, qualche avvisaglia dell’avanzamento dei boschi, pur ancora agli inizi, non manca anche qui”. Gli esempi sono quelli delle ex aree industriali tornate agricole e invase dagli alberi. “A Roma e Bologna, sono nati addirittura comitati anti speculazione che mirano a conservare i boschi tornati spontaneamente in pertinenze di industrie, ferrovie o nei fabbricati abusivi abbandonati”.
La foresta italiana: la più ricca d’Europa
Torna così la necessità di pensare a una strategia complessiva efficace per la gestione dei fenomeni. “Sulla base della mia esperienza – conclude Sitzia – sarebbe importantissimo cercare di mettere in relazione le varie normative: quelle urbanistiche insieme a quelle legate alla biodiversità e al settore primario. Attualmente, il panorama degli strumenti di pianificazione e programmazione non sempre ha questi collegamenti. È uno dei difetti che si può e si deve correggere, come base di tutto, perché sta alla base dell’applicazione quotidiana dell’azione legata all’ambiente”. Fondamentale, allora, è l’applicazione della nuova legge-quadro nazionale in materia di selvicoltura e filiere forestali di cui si è dotata nel 2018 l’Italia, che assegna al patrimonio forestale italiano, il più ricco d’Europa per diversità biologica, ecologica e bio-culturale, un ruolo strategico e trasversale nelle politiche del nostro Paese accanto alle filiere produttive.
Boschi tra economia e rischi
L’importanza del patrimonio boschivo è confermata anche a livello economico. I conti forestali entrano infatti a pieno titolo nel Pil del Paese.
Tra il 2000 e il 2017, evidenzia il rapporto, l’incremento della produzione forestale totale si è attestato sul 36,4%, con un +30,2% di crescita del valore aggiunto, e, tra il 2000 e il 2007, con un passaggio da 29.600 a oltre 40.000 unità di lavoro, a misura dell’occupazione. L’incidenza delle foreste, rispetto al totale di agricoltura, foreste e pesca, è così passata dal 2,6% al 4,2% in termini di produzione e dal 4,5% al 5,8% in termini di valore aggiunto.
Un patrimonio da salvaguardare
Un patrimonio comunque fragile, che va salvaguardato con attenzione. Soprattutto dagli incendi e dal vento, che è la causa di circa il 50% dei danni alle foreste nell’ultimo secolo.
Gli incendi forestali sono gradualmente diminuiti a partire dagli anni Ottanta ma tra il 2010 e il 2017 Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna hanno registrato più di 40 mila eventi e una superficie boschiva europea bruciata all‘85% . La stagione degli incendi, tra l’altro, negli ultimi 30 anni si è allargata da giugno a ottobre.
Negli ultimi 100 anni, si sono inoltre verificate sempre più frequentemente tempeste di vento. In Europa, il vento genera in media 2 tempeste catastrofiche ogni anno. Una delle peggiori, tra le più recenti, è quella di Vaia, nel Nord-Est del Paese, che, tra il 27 e il 29 ottobre 2018, ha coinvolto un territorio complessivo di 2.300.711 ettari, abbattendo in 473 comuni a dominante copertura boschiva ben 8.689.754 metri cubi di alberi.
Alberto Minazzi