La crisi della professione evidenziata dai dati Fnopi, commentati dalla Fondazione Gimbe. Il Veneto prova a puntare sulla mobilità volontaria
Se non siamo ancora arrivati al punto di definirli delle “mosche bianche”, il trend negativo non è per questo meno evidente.
In Italia, la professione di infermiere, specie nelle strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale, è sempre meno attrattiva. Una situazione, nota da anni, riguardo alla quale è stato fatto il punto in questi giorni in occasione del terzo congresso nazionale della Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi).
I dati presentati a Rimini sono stati analizzati e commentati dalla Federazione Gimbe, parlando di “una crisi che non vede la luce”. E il presidente, Nino Cartabellotta, ha concluso come tra le possibili conseguenze che potrebbero derivare dalla mancata adozione di un piano straordinario che favorisca “un’adeguata dotazione di personale infermieristico, gli investimenti del Pnrr rischiano di essere vanificati”. Qualcosa, intanto, sembra comunque iniziare a muoversi. La Regione Veneto ha infatti dato ufficialmente il via a un progetto sperimentale di mobilità volontaria per gli infermieri.
I numeri della crisi degli infermieri in Italia
Secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2022 il personale infermieristico contava in Italia 302.841 unità, di cui 268.013 dipendenti del Ssn e 34.828 impiegati presso strutture equiparate. Nel nostro Paese, in sostanza, ci sono 5,13 infermieri ogni 1.000 abitanti. E uno dei principali problemi, come sottolinea la Fondazione Gimbe, è che, dal 2016, il numero di infermieri dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale che lasciano volontariamente il posto di lavoro è in costante aumento.
Fenomeno che non dipende solo dalla pandemia, con la prima accelerazione significativa tra il 2020 e il 2021: nel 2022 si è registrata una vera e propria impennata dei licenziamenti, con 6.651 casi dei 16.192 complessivamente registrati nel triennio. A testimoniare che non c’è stata nessuna inversione di tendenza nemmeno negli anni successivi sono le cancellazioni dall’albo Fnopi, quando l’iscrizione è requisito fondamentale per l’esercizio della professione infermieristica.
Negli ultimi 4 anni, le cancellazioni sono state 42.713, di cui 10.230 solo nel 2024. Tra pensionamenti, trasferimenti all’estero, decessi, morosità e abbandoni volontari della professione, si può dunque dire che in media l’Italia ha perso oltre 10 mila infermieri ogni anno.
Il mancato turnover
“Questo trend in continua ascesa – commenta Cartabellotta – non viene compensato dall’ingresso di nuove leve, aggravando la carenza di personale e l’insostenibilità dei carichi di lavoro, con un inevitabile effetto boomerang su chi rimane in servizio”.
Oltre che meno numerosi, gli infermieri italiani sono infatti sempre più anziani.
Nel 2022, erano quasi 78 mila, il 27,3%, quelli over 55 dipendenti dal Ssn, con un altro 22% (62.467) tra i 50 e i 54 anni.
“Anche prescindendo dagli altri fattori critici – riprende il presidente Gimbe – la sola variabile anagrafica basta a delineare uno scenario allarmante: senza un ricambio generazionale adeguato, la carena di infermieri è destinata ad acuirsi nei prossimi anni, quando si raggiungerà il picco della gobba pensionistica”. A far suonare il campanello d’allarme è soprattutto il numero di nuovi laureati in Scienze infermieristiche: 16,4 ogni 100 mila abitanti, quando la media Ocse è di 44,9. Il dato, prosegue l’analisi, si lega proprio alla scarsa attrattività della professione infermieristica per i giovani. Lo dice il rapporto tra domanda e offerta del corso di laurea, crollato nel 2024/25 a 1,04, con i candidati appena sufficienti a coprire i posti disponibili.
Il tema salariale e il confronto internazionale
Sono numerose le spiegazioni sul perché la professione di infermiere piace sempre meno. Ma la sintesi di Cartabellotta è efficace: “A fronte di condizioni lavorative impegnative e spesso insostenibili, gli stipendi degli infermieri restano tra i più bassi d’Europa, sia in termini assoluti, sia rispetto al costo della vita”. Nel 2022, la retribuzione annua lorda di un infermiere italiano era di 48.931 dollari: a parità di potere di acquisto, ben 9.463 in meno rispetto alla media Ocse. In Europa, stipendi più bassi, oltre che in Grecia e in Portogallo, si registrano solo nei Paesi dell’Europa dell’Est. Per di più, nonostante le crescenti responsabilità e l’aumento dei carichi di lavoro, la Fondazione Gimbe rimarca un calo del -1,52% del salario degli infermieri italiani tra il 2001 e il 2019. È anche per questi motivi che, basandosi sui dati Ocse, sono oltre 60 mila, ovvero più di 1 su 6 gli infermieri che esercitano come liberi professionisti o all’interno di cooperative di servizi. A prescindere dal contratto di lavoro e dalla struttura in cui operano, peggio di noi nel rapporto tra infermieri e abitanti fanno così solo Spagna, Polonia, Ungheria, Lettonia e Grecia.
Il sistema italiano tra squilibri e nuove necessità
Tra le altre criticità evidenziate dall’analisi della Fondazione, si aggiungono lo sbilanciamento nel rapporto tra infermieri e medici (1,5 contro una media Ocse di 2,7) e le forte disomogeneità territoriali. “ In generale – commenta Nino Cartabellotta – il numero di infermieri risulta più basso in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, sottoposte ai piani di rientro, oltre che in Lombardia”. La forbice varia tra i 3,83 infermieri ogni 1.000 abitanti della Campania e i 7,01 della Liguria. “Siamo di fronte a un quadro che compromette il funzionamento della sanità pubblica e mina l’equità nell’accesso alle cure, soprattutto per le persone anziane e più vulnerabili, sia in ambito ospedaliero che territoriale”, chiosa il presidente. “La grave carenza di infermieri non è solo una questione di numeri, ma il riflesso di dinamiche professionali che aggravano lo squilibrio tra bisogni assistenziali e disponibilità di personale, configurando una vera e propria emergenza per il Servizio Sanitario Nazionale”. Il tutto, non va dimenticato, in un contesto in cui la popolazione italiana invecchia sempre più, generando così un aumento della domanda di infermieri.
L’iniziativa del Veneto per favorire la mobilità degli infermieri
Se dunque si rende necessario un piano di intervento a livello nazionale, le prime risposte arrivano intanto dai territori.
La Regione Veneto, in attuazione della specifica azione prevista all’interno del Piano regionale per il contrasto alla carenza di personale del Servizio Sanitario Regionale, ha annunciato proprio oggi l’avvio di un progetto volto a favorire la mobilità esterna, tra le aziende e gli enti del Servizio, del personale infermieristico su base volontaria. “Si tratta – ha illustrato l’assessore alla Sanità, Manuela Lanzarin – di una misura concreta per valorizzare i professionisti e migliorare la distribuzione del personale nelle nostre aziende sanitarie”. L’iniziativa, in forma sperimentale, sarà riservata agli infermieri in servizio da almeno 5 anni e il trasferimento effettivo avverrà solo in caso di esito positivo del colloquio e con il consenso sia dell’azienda di provenienza che di quella di destinazione. “Vogliamo dare una risposta concreta al bisogno di stabilità e riconoscimento degli infermieri, offrendo loro nuove opportunità senza dover ricorrere a nuovi concorsi per cambiare azienda e sede di lavoro”, conclude Lanzarin.
Alberto Minazzi