Il dietro le quinte della leggenda
Ve lo siete mai chiesti? Chi ha costruito il Moro di Venezia? Cos’ha fatto di questo scafo rosso una leggenda?
Certo, tutti conosciamo le imprese di Paul Cayard e del suo mitico equipaggio.
Ma esiste un’altra squadra, rimasta nell’ombra, che ha contribuito alla riuscita delle imprese dell’imbarcazione veneziana.
In America, nel 1992, avrebbero fatto carte false per sapere ciò che sapevano loro. E le hanno pure fatte, tanto che al Moro di Venezia sono state messe “le mutande” per nasconderne la chiglia. Ma i segreti del Moro sono rimasti nei ricordi e nelle mani di chi lo ha materialmente realizzato.
Metropolitano.it ha intervistato parte dei “ragazzi del Moro“. Oggi hanno tutti una cinquantina d’anni o poco più. Ma allora erano giovani ragazzi catapultati in una scuderia.
E’ anche grazie al loro lavoro dietro le quinte se il Moro di Venezia divenne la barca-siluro che diede battaglia nelle acque di San Diego.
Fanno parte della leggenda.
“Alle armi!: inizia l’avventura”
I cantieri Tencara furono approntati nel tempo record di cinque mesi.
Era il 2 maggio 1989 quando i portoni si aprirono ad accogliere i primi trenta operai: chi falegname, chi carrozziere, chi veniva già dal Petrolchimico e risultò subito una figura importante, come il chioggiotto Nicola Ballarin, qualche anno in più rispetto agli altri e una certa esperienza come lavoratore di resine.
“Mi dissero che si doveva costruire una barca. Quale barca lo capii solo in seguito – racconta – Non assunsero operai specializzati, Gardini voleva una squadra di falegnami e carrozzieri, erano le figure professionali che più potevano tornare utili”.
Una squadra di giovani per Il Moro di Venezia
Ad accomunare le maestranze la giovane età, la condivisione delle stesse passioni sportive (calcio e Formula1, alle quali inevitabilmente si è presto affiancata la vela), la voglia di divertirsi e, per molti, l’idea di metter su famiglia. Gli operai che hanno costruito il Moro di Venezia avevano quasi tutti vent’ anni o poco più.
Forse anche per questo, nel giro di alcuni mesi, diventarono una squadra affiatatissima. Ognuno dava il massimo e tutti erano pronti ad aiutarsi gli uni con gli altri alternandosi nei vari ruoli.
Tuttavia, i primi tempi furono durissimi.
Turni di lavoro pesanti di 12 ore ciascuno in quanto non erano possibili interruzioni di processo per via dei materiali utilizzati, resine e prodotti innovativi, che nessuno fino ad allora aveva maneggiato.
Nicola Ballarin, Roberto Fracasso, Emanuel Prendin, Davide Truccolo e Marco Ravagnan allora non lo sapevano, ma stavano costruendo la barca simbolo della città, quella che sarebbe rimasta nella storia.
A crederci fino in fondo fin dall’inizio era invece l’armatore: Raul Gardini.
Un cantiere “segreto”
Gardini era appena diventato il patron della Montedison e per costruire la sua barca, portarla in finale e vincere la famosa brocca d’argento fece approntare un cantiere in un’area dismessa del Petrolchimico di Porto Marghera. C’era un budget illimitato per questa grande impresa.
Ma non era un caso che le sue maestranze si fossero ritrovate a lavorare nell’unico cantiere senza finestre, per accedere al quale già all’epoca erano state approntate delle misure di sicurezza e messo in uso il badge.
Quel progetto doveva rimanere segreto.
“La zona del Cantiere era come un bunker, per entrare dovevamo superare tre controlli – racconta Roberto Fracasso -. Prima il guardiano all’ ingresso Montedison poi due passaggi con badge”. A volte, in uscita, venivano controllati gli zaini.
Quelle che manipolavano all’interno, d’altra parte, non erano le solite resine. Per lo scafo del Moro si plasmarono carbonio e kevlar, frutto delle più rivoluzionarie ricerche del settore.
“Gli stessi processi di lavorazione erano innovativi e le tecnologie ultrasofisticate per l’epoca – racconta Emanuel Prendin -. A pensare ai nuovi materiali e a come renderli performanti ci pensava l’ufficio Ricerca e Sviluppo della Montedison. La prima vera sfida del Moro era partita con la sua costruzione, da qui, da Porto Marghera”.
Sicurezza e spionaggio: le due ansie di Gardini
Ci vollero circa 6 mesi per costruire il primo Moro di Venezia.
In cantiere si lavorò allo scafo mentre il resto (vele, sartie, timoneria etc) venne costruito altrove.
Ma la squadra aveva “preso mano” e per gli altri scafi i tempi vennero ottimizzati ancora di più.
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Qualcuno si specializzò, entrando a far parte dei tecnici al seguito del Moro di Venezia, che seguì per lunghi periodi anche a Palma di Maiorca e a San Diego.
Come Marco Ravagnan, che ricorda bene quanto la questione legata alla sicurezza restasse sempre viva per Il Moro di Venezia.
“In America – racconta- era diventata ancora più forte. Se la barca era a terra e passava un elicottero, partiva subito un segnale e veniva steso un telone in copertura; la chiglia era invece nascosta dalle cosiddette “mutande”. In acqua era ancor peggio: l’attenzione era massima e la sicurezza doveva stare attenta ai subacquei. Erano cose serie: si parlava di spionaggio industriale ed era la chiglia la parte più segreta”.
Tra lavoro e coffee break
Nelle trasferte del Moro il cantiere non si fermava e quando arrivava Raul Gardini si apriva sempre una nuova sfida.
“Arrivava a volte in elicottero, altre con il suo Mercedes e all’inizio con noi non era di molte parole. Metteva soggezione. Dopo il primo Moro però le cose cambiarono un po’ –ricordano “i ragazzi del Moro”- Una volta chiamò anche un catering per offrirci un rinfresco. Ed è anche accaduto che chiedesse piccoli consigli”. Quali?
“Era indeciso sul colore da dare al logo della Montedison – svelano – Ci chiese cosa pensassimo al riguardo: meglio stendere sulle fiancate rosso Venezia il giallo o il verde? Sapeva bene in realtà cosa voleva – concludono – Ma era un perfezionista. Una volta abbiamo fatto una riunione di tre ore per decidere se fare e come fare il foro sul ciuffo del leone”.
Nel frattempo, tra corsi d’inglese per relazionarsi alla dirigenza straniera, il programma quotidiano che arrivava di prima mattina sempre in lingua inglese e gli allora futuristici Coffee break, anche fra loro, la consapevolezza cresceva.
Come l’orgoglio, al seguito delle vittorie della “loro barca” sul mare.
“Arrivavamo tutti da falegnamerie e piccoli cantieri della zona – ricorda Davide Truccolo – Ci siamo trovati improvvisamente in una scuderia della Ferrari. E’ stato davvero un grande periodo”.
Grazie bella avventura
ANNI STUPENDI…FELICE DI ESSERCI STATO..❤❤❤
10 , 100, 1000 Raul Gardini
Un articolo davvero appassionante anche per chi come me che non vive la bellezza del mare e delle barche a vela. Complimenti a chi ha scritto il pezzo, perché ha dimostrato una straordinaria capacità di coinvolgimento dei lettori.
In qualche modo ho partecipato anch’io. Ero a capo dell’Impresa Moras che ha ristrutturato in tempi record i capannoni Tencara dove poi si è insediato il gruppo qualificato di tecnici che ha costruito il Moro di Venezia.