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Francesca Ruth Brandes: con Esodi cantastorie per la pace

Francesca Ruth Brandes: con Esodi cantastorie per la pace
Francesca Ruth Brandes @ Umberto Cornale

Con la sua ultima pubblicazione, cercherà di raggiungere più luoghi possibili per usare la parola come “un’arma più affilata delle bombe”

E’ autrice di numerose pubblicazioni, molte delle quali raccolte poetiche.
Ma più che una poetessa, Francesca Ruth Brandes, giornalista veneziana che ha scritto e condotto per RadioRai anche diversi programmi di attualità culturale, preferisce definirsi una “cantastorie”.
Perché la sua scrittura nasce sempre da una “necessità urgente di testimoniare”, di “sollevare questioni”, di “suscitare dialogo”.
Esodi”, il suo ultimo libro pubblicato da Zacinto editore, è anche di più.
Perché nasce dall’indignazione. E perché gli esodi sono tanti, riguardano tutti.

“L’esodo è continuo, sembra interminabile – sottolinea Brandes -, ciascuno con il proprio tallèd di guerra al braccio. Tutto il dolore, la rabbia, la contraddizione, la paura stanno in quella marcia che non sembra avere uno scopo. Atroce, senza punti di sostegno. Eppure, non posso fare a meno di pensare che esistano soluzioni diverse dall’odio, che la marcia possa avere una direzione alternativa. Qualcosa di più impetuoso della violenza: il desiderio fermo di ritrovare una comune umanità”.

  • Cosa evoca l’Esodo per la tradizione ebraica e come si lega, se si lega, al rapporto con Israele?

Io sono vissuta in una tradizione ebraica prettamente diasporica, legata ad Israele da rapporti affettivi, personali, ideali.
Bisogna sempre distinguere. C’è una componente della cultura ebraica nettamente convinta che Israele sia un destino comune, l’unico luogo in cui poter vivere appieno la propria dimensione identitaria.
Dal canto mio, nonostante sia stata per anni una convinta sionista, vedendo in quei luoghi soprattutto un progetto ideale, un’utopia da realizzare concretamente nella formula “uno Stato e due popoli che convivono naturalmente”, non ho mai pensato che Israele sia l’unico modo di vivere ebraicamente la propria vita. Certo, l’esodo è concetto che ha contraddistinto nei millenni la storia degli ebrei, ma non solo. Piuttosto, penso all’esodo degli esseri umani»

esodi

  • Il suo titolo, infatti, è plurale: Esodi. Da un anno stiamo assistendo anche all’esodo della popolazione di Gaza, come guarda a questa tragedia?

È anche alla disperazione degli abitanti di Gaza, oltre a quella degli israeliani – tutta questa gente coinvolta suo malgrado in un gigantesco vortice d’odio e di sangue – che ho guardato scrivendo questi testi. Non esiste una parte giusta, l’unica posizione che si ha il dovere di prendere, come persone, è quella di proteggere le persone. La loro vita, la vita di tutti. E non esistono scusanti per le stragi.

  • Quale è la destinazione dell’Esodo?

Credo che, più della destinazione, conti il percorso.

  • Il mondo, per la tradizione ebraica, si regge su cinquanta saggi: la parola non è forse il collante di questa saggezza?

La parola è davvero un collante, quando diventa azione, quando acquista voce, si fa spada d’inchiostro … in ebraico il termine davàr significa allo stesso tempo “parola” e “cosa”. In questa situazione infernale, ce lo si sta dimenticando. Le azioni atroci di Hamas, la risposta mostruosa del governo e dell’esercito israeliano non ci parlano di saggezza, rivelano un orrore senza parola. Noi, come esseri umani innanzitutto, non possiamo tacere.

  • Come nascono le sue poesie, come fluiscono dal profondo?

Esattamente come fluisce dal profondo un’inchiesta giornalistica quando indigna. Allo stesso modo. Lentamente, guardando agli avvenimenti, verificando le fonti e poi limando l’essenziale. Un lavoro faticoso. Lungi da me l’immagine del poeta che scrive su tutto, fissandosi però costantemente l’ombelico.

esodi

  • Il pubblico come sta reagendo al suo nuovo libro?

La prima presentazione di “Esodi”, avvenuta il 25 settembre alla sede veneziana di Emergency (e la scelta della sede non è stata per nulla casuale, proprio per la valenza pacifista del simbolo), è andata molto bene. Amici, certo, ma anche curiosi, persone che magari non la pensavano esattamente come me. E perché no? È stimolante, il confronto m’interessa. Ho fatto del mio meglio, con il contributo delle musiche composte appositamente per l’evento da un grande musicista come Michele Gazich, per trasformarla in un’offerta teatrale, un reading integrale del libro. Poi, mi hanno magistralmente aiutata due grandi commentatori: lo scrittore e giornalista Roberto Ranieri e il professore Shaul Bassi di Ca’ Foscari… Se D-o vorrà, sarà solo l’inizio: il progetto è di raggiungere quanti più luoghi possibili. Non per vanità, ma per usare la parola come arma, un’arma più affilata delle bombe.

  • Cosa sogna per i giovani d’oggi e per quelli che verranno?

Che non tacciano, non accettino la violenza come normalità. Che si oppongano al male, sempre e comunque. Che usino la parola come arma, e la loro voce giunga alle stelle.

  • Pace a Gaza, in Israele e in Medio Oriente: è possibile?

Israele si sta suicidando, sta uccidendo nel sangue la propria immagine, i valori in cui abbiamo creduto tutti, ebrei e non ebrei. Hamas sta trucidando anche la propria gente, facendone scudi umani.
Il conflitto si sta allargando, con il suo carico di violenza e d’idiozia. Non posso che sperare in una pace, ma è un processo faticosissimo e distante. Credo che l’ebraismo diasporico, la sua parte più intelligente, meno divisiva, dovrebbe fare molto di più, invece di limitarsi a stentate condanne formali. Credo che le diplomazie internazionali, pragmaticamente, debbano gestire costi e benefici per ottenere parziali accomodamenti. L’odio che si è seminato avrà memoria. A me, però, piacciono le imprese complicate, visionarie.

  • Ci regala il verso che le è più caro?

Facciamocelo regalare da Isaia 4:3 Kol ha-kathùv la-chayìm, che vuol dire “Tutto scritto per la vita”.
Cerco di ricordarmene il più possibile.

Nicoletta Benatelli

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