Risultati positivi dai test sui topi, ottenuti dalla ricerca del San Raffaele di Milano, aprono la strada all’immunoterapia
La forma cronica dell’epatite B, trasmissibile da madre a figlio durante il parto (la sviluppa oltre il 90% dei bambini contagiati), per via sessuale o per contatto con sangue infetto, colpisce oltre 300 milioni di persone al mondo e costituisce uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di un tumore al fegato o della cirrosi epatica.
Prevenirla si può, ma il vaccino non è in grado di aiutare chi fosse già affetto dalla malattia.
La cura dell’epatite B avviene dunque oggi soprattutto utilizzando antivirali, riguardo ai quali la ricerca sta fortunatamente facendo registrare importanti progressi.
L’immunoterapia contro l’epatite B
Proprio il lavoro degli studiosi, adesso, apre anche a una nuova via terapeutica alternativa: l’immunoterapia. Una strategia per la quale erano state gettate le basi già nel 2019, con l’identificazione di una molecola fondamentale per la risposta immunitaria, ma che ha compiuto ora un passo avanti fondamentale.
Uno studio, pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine, il gruppo di ricercatori del San Raffaele, coordinato da Matteo Iannacone, direttore della Divisione di Immunologia, trapianti e malattie infettive dell’ospedale milanese, testimonia infatti i risultati positivi dei test effettuati con un approccio adottato per la prima volta al mondo.
La riattivazione del sistema immunitario
Quando l’epatite B diventa cronica, il virus Hbv che la provoca è in grado di sopravvivere e riprodursi all’interno delle cellule del fegato. I linfociti T, cellule attivate dal sistema immunitario con la funzione di attaccare il virus, risultano infatti inefficaci e l’infezione non può così essere debellata.
L’azione di questi linfociti disfunzionali necessita di essere quindi riattivata, attraverso un lavoro di caratterizzazione. Nel 2019, attraverso esperimenti su modelli animali e su cellule in coltura ottenute da campioni umani, i ricercatori del San Raffaele avevano dunque individuato nella molecola-messaggero “interleuchina-2” una delle più efficaci forme di immunoterapia per riattivare le cellule.
Il superamento degli effetti collaterali
La terapia basata su questa molecola, nei casi in cui viene somministrata sistematicamente, ha però la controindicazione di produrre gravi effetti collaterali. I vasi sanguigni, cioè, aumentano la permeabilità, provocando gravi edemi. L’interleuchina-2, inoltre, induce tossicità attraverso l’azione sulle cellule “natural killer” e interviene anche su cellule regolatorie che inibiscono la risposta immune.
I ricercatori si sono così concentrati sulle modalità per far sì che la molecola raggiunga solo i linfociti T per attivarli correttamente. Ed è risultato efficace in tal senso l’approccio di “cis-targeting” sviluppato con la start-up americana Asher Biotherapeutics: coniugare la molecola immunoterapica con un anticorpo specifico.
Verso la sperimentazione sull’uomo
“Abbiamo visto – spiega Iannacone – che somministrando questo tipo di immunoterapia i linfociti T si espandono di numero e aumentano la loro funzione, ovvero rilasciano citochine in grado di inibire la replicazione virale ed eliminano le cellule infette, abbattendo di fatto il virus”.
Utilizzando modelli preclinici di epatite B e il sangue di persone sane, è stata dunque dimostrata la sicurezza, la bassa tossicità e l’efficacia terapeutica di questo approccio immunoterapico. I test sono stati finora effettuati sui topi. “Il prossimo passo – conclude il medico – è quello di testare sull’uomo questo approccio, in combinazione con gli antivirali”.
Alberto Minazzi