In alcuni nuclei familiari si siano manifestati casi più gravi del virus. Potrebbe dipendere dal deficit genetico di un enzima.
Potrebbe esserci un enzima, una proteina che fa da catalizzatore dei processi biologici, alla base di una cura contro il Coronavirus.
Lo stanno sperimentando alcuni studi clinici negli Stati Uniti e in Irlanda. Una soluzione che si è deciso di provare sulla scorta di una serie di premesse, alcune delle quali poste dal Policlinico universitario di Padova.
Pur in fase preliminare, la lettera di ricerca pubblicata dal Policlinico padovano è stata condivisa a livello internazionale anche da comunità scientifiche di vari Paesi, come Giappone o Israele.
L’enzima il cui deficit determina patologie gravi
L’enzima in questione si chiama Alfa 1 antitripsina ed è contenuto in un farmaco utilizzato per alcune malattie genetiche legate alla sua assenza.
Attraverso lo svolgimento del follow-up dei pazienti ricoverati con polmoniti gravi causate dal coronavirus e poi dimessi, l’équipe facente capo al direttore dell’Unità di fisiopatologia respiratoria, Andrea Vianello, sta infatti studiando la teoria secondo la quale una particolare malattia genetica rara può determinare un’evoluzione seria dell’infezione Covid.
Il deficit di Alfa 1 antitripsina sembra infatti bloccare l’azione della proteina che impedisce l’ingresso del virus nella cellula.
Lo studio padovano
Ci vorranno ancora almeno alcuni mesi per trarre le conclusioni dello studio, che sta valutando la presenza di questo difetto genetico nei soggetti che sono andati incontro a una malattia grave legata all’infezione da Sars-Cov-2 e sono stati ricoverati in ospedale per insufficienza respiratoria.
“I dati – spiega Andrea Vianello – vanno rilevati non in fase di acuzie, perché altrimenti risultano falsati”.
Sono circa 300 i Veneti, nell’amplissima fascia di età tra i 23 e i 94 anni al centro del monitoraggio.
Uno studio non nato specificamente, ma legato all’accompagnamento di sorveglianza dei soggetti dismessi dopo una grave polmonite da Covid. “È da tempo – sottolinea il direttore – che abbiamo previsto di effettuare controlli periodici in ambulatorio su questi pazienti una volta usciti dall’ospedale. E, tra gli esami di routine, come spirometrie e visite pneumologiche, che effettuiamo con cadenza trimestrale, rientrano anche una serie di esami del sangue, tra cui quello specifico sulla concentrazione dell’enzima in questione”.
L’esame
Attraverso questo monitoraggio, effettuato di prassi anche nei pazienti pneumopatici non-Covid, si sta così verificando l’idea della possibile connessione delle forme più gravi di infezione da coronavirus con la carenza genetica dell’enzima.
“Questa carenza – riprende Vianello – può indicare una predisposizione a sviluppare malattie respiratorie in generale. È comunque sufficiente un banale esame di laboratorio per effettuare un’analisi esaustiva. Noi abbiamo semplicemente attenzionato questi aspetti sotto una certa prospettiva, quella legata al Covid, per una valutazione retrospettiva dei risultati di questi esami in collegamento al manifestarsi dell’infezione in forma grave”.
Un’eredità vichinga?
Se si confermasse il nesso tra gravità dell’infezione e carenza dell’enzima, si potrebbe spiegare ad esempio perché il Covid è stato più letale al nord che al sud.
La malattia rara che determina questa carenza è infatti maggiormente presente nelle popolazioni settentrionali, come i vichinghi.
Si tratta però di una malattia che, nella forma più lieve, non determina particolari conseguenze. Ed è per questo che sono solo una ventina circa i pazienti seguiti dall’Unità padovana.
Un’altra spiegazione che potrebbe derivare dalla conferma della tesi dell’équipe del professor Vianello è quella del perché in specifici nuclei familiari si siano manifestati più casi gravi, sebbene ciò non possa spiegare la stessa manifestazione dell’infezione in due coniugi. “Ma non dimentichiamo – conclude Vianello – che l’infezione e la sua gravità dipende da tre fattori: il virus e le sue varianti, il contesto ambientale e la predisposizione individuale. Il tema che stiamo approfondendo riguarda questo ultimo aspetto. Perché spesso abbiamo visto casi di ricoveri con sintomi ugualmente gravi per padre e figlio. E sono in molti a suffragare questa tesi. Anche l’autorevole rivista Lancet, in un recente articolo, citandoci espressamente lancia un forte allarme rispetto all’attenzione da porre a queste specifiche categorie di pazienti”.
La cura
La conseguenza più importante della conferma della tesi, però, è legata alla possibilità di curare infezioni gravi da Covid. Alla mancanza di un enzima si può infatti facilmente rispondere somministrando quell’enzima. Sia in forma preventiva che quando l’infezione è già manifestata.
Alberto Minazzi