Dal preprint di uno studio su 280 mila video di conferenze emerge l’evoluzione del linguaggio accademico legata all’uso di ChatGpt
L’uomo ha insegnato ai computer a parlare e adesso sono le macchine, attraverso le chatbot di intelligenza artificiale generativa come ChatGpt, ad aver iniziato a influenzare l’evoluzione del nostro linguaggio, che si modifica di continuo, contribuendo all’evoluzione culturale.
È la conclusione a cui è arrivato un gruppo di studiosi, che ha pubblicato in un preprint su Arxiv i risultati dell’analisi di circa 280 mila trascrizioni di video di presentazioni e discorsi tratti da oltre 20 mila canali YouTube accademici. Risultati sicuramente interessanti, perché è la prima volta che una tecnologia è in grado di insegnarci qualcosa in modo così efficace.
Ma che, al tempo stesso, necessitano di una riflessione. “I nostri risultati – fanno notare i ricercatori – sollevano preoccupazioni sociali e politiche rilevanti circa il potenziale dell’Ai di ridurre involontariamente la diversità linguistica o di essere deliberatamente utilizzata in modo improprio per la manipolazione di massa”.
Le parole “promosse” da ChatGpt
I termini su cui si è concentrato lo studio sono inglesi, in quanto è questa la lingua universale della comunicazione accademica di tipo scientifico e tecnologico e si tratta per lo più di verbi o aggettivi.
Da questo nuovo studio è dunque emerso che, nei 18 mesi osservati dall’introduzione della diffusa chatbot, l’uso di “delve” è aumentato del 48%, “realm” del 35%, “meticulous” del 40% e “adept” del 51%.
Termini che, rispettivamente, significano “approfondire”, “reame”, “meticoloso” e “abile”.
I diversi modi in cui l’Ai influisce sul linguaggio
Lo studio ha così dato risposta positiva alla possibilità che l’influenza dell’Ai travalichi la parola scritta e che anche la nostra comunicazione parlata possa evolversi sotto l’influenza dei modelli dei cosiddetti “Large Language Models” (Llm) su cui si basa la proprietà di esprimersi con un linguaggio naturale dei moderni chatbot, diventati parte integrante delle nostre attività quotidiane.
Tale impatto, aggiunge lo studio, può avvenire non solo attraverso l’uso diretto di ChatGpt per l’editing di un testo, ma anche attraverso l’esposizione indiretta al contenuto generato dai Llm, che hanno un loro linguaggio specifico, riguardo al quale studi precedenti hanno dimostrato che interiorizza e replica modelli e pregiudizi del linguaggio umano.
Il cerchio, in altri termini, si è chiuso. Anche se, spiegano i ricercatori, l’influenza di ChatGpt nella maggior accelerazione del tempo dell’utilizzo di alcuni termini nella comunicazione parlata non è uniforme per tutte le parole, con per esempio “underscore” (sottolineatura) che si è diffuso solo nei testi scritti). E sono occorsi alcuni mesi per rendere significativo il cambiamento di tendenza.
I rischi e le sfide
Questa prima prova empirica documenta che, non solo nelle conferenze tecniche e negli articoli scientifici, ma anche nei libri scolastici e nei saggi per gli studenti e nelle conversazioni spontanee, è sempre più diffuso l’uso di parole inglesi in precedenza rare come “underscore” (sottolineatura), “showcasing” (in mostra), “intricate” (intricato), “pivotale” (fondamentale) o “tapestry” (arazzo).
“Le macchine – viene scritto nello studio – potrebbero ora assumere il ruolo di modelli culturali in un numero crescente di domini”. E, tra le sfide future, particolare preoccupazione va al “potenziale declino della diversità culturale”.
“I nostri risultati – proseguono gli studiosi – mettono in discussione l’idea che gli esseri umani possano continuare a fornire dati nuovi e imparziali per contrastarlo”.
In un altro studio, pubblicato su Nature Human Behaviour, lo stesso gruppo di lavoro evidenzia il possibile impatto negativo dell’Ai generativa sulla programmazione informatica. E lo stesso modello tradizionale di istruzione potrebbe essere messo in discussione. Per questo, si conclude evidenziando “la necessità di ulteriori indagini sui cicli di feedback tra comportamento delle macchine e cultura umana”.
Alberto Minazzi