Una vera e propria risposta scientifica sul perché alcuni vaccinati si infettino con il virus Sars-CoV-2 e altri no ancora non c’è. Da Israele arriva però uno studio, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine, che dimostra come sia possibile prevedere, attraverso gli anticorpi neutralizzanti presenti nel sangue, questa possibilità. Anticorpi che, affermano gli studiosi, si presentano anche come marcatore predittivo affidabile ai fini della valutazione della necessità di somministrare una terza dose di siero per la protezione dalle nuove varianti.
I ricercatori israeliani hanno esaminato i dati di 11.453 operatori sanitari, identificandone 39 che, nonostante il completamento del ciclo vaccinale con la somministrazione della doppia dose del vaccino a Rna messaggero di Pfizer-BioNTech, avevano comunque contratto l’infezione, anche se sviluppando una forma asintomatica o al massimo manifestando sintomi lievi.
Per 22 di questi operatori, gli studiosi sono riusciti a recuperare le misurazioni dei livelli anticorpali effettuate il giorno in cui è stata accertata l’infezione o nella settimana precedente.
I dati raccolti sono stati posti a confronto con quelli relativi ad altri 104 operatori, sempre completamente vaccinati, che al contrario non hanno contratto il virus pur essendovi venuti a contatto. E, relativamente agli anticorpi neutralizzanti, i livelli riscontrati in coloro che hanno contratto l’infezione sono risultati più bassi rispetto al resto del campione.
Lo studio israeliano, prima prova diretta dell’effetto degli anticorpi neutralizzanti, rafforza dunque la tesi, già sviluppata nel corso degli studi clinici effettuati in merito al vaccino di AstraZeneca, che la probabilità di infezione si riduce progressivamente con l’aumento degli anticorpi neutralizzanti presenti nell’organismo.
I ricercatori sottolineano che lo studio ha dei limiti, essendo basato su un campione ridotto di casi, per di più di soggetti giovani e sani, che non hanno richiesto il ricorso alle cure ospedaliere. In particolare, non consente di giungere a conclusioni relativamente ai vulnerabili, come anziani o persone con co-morbilità. Occorrerà inoltre, attraverso nuovi studi, quantificare il livello specifico di anticorpi associato alla protezione.
In ogni caso, come ha sottolineato l’immunologo dell’Università australiana del Nuovo Galles del Sud, Miles Davenport, si tratta di “un passo importante nell’ulteriore convalida dell’uso del titolo di anticorpi neutralizzanti diretti contro il virus come un elemento correlato della protezione”.