Lo studio sulle autopsie di Università di Trieste, Icgeb e King’s College: trovato l’rna di Sars-Cov-2 a livello di cartilagini polmonari nonostante la negatività al tampone
Non basta essere negativi al tampone, nemmeno da 300 giorni, per essere sicuri di aver espulso il virus del Covid.
Il Sars-CoV-2 ha infatti la capacità di colonizzare distretti remoti del nostro organismo, come quello cartilagineo.
È la conclusione alla quale sono arrivati i ricercatori dell’Università di Trieste, dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechonology (Icgeb) del capoluogo giuliano e del King’s College di Londra, che hanno pubblicato sul Journal of Pathology i risultati di uno studio effettuato su alcuni pazienti deceduti all’ospedale triestino.
Di questi, sono stati raccolti e selezionati per la pubblicazione 27 casi che presentavano aspetti clinici, diagnostici e molecolari simili per una serie di aspetti: dai sintomi polmonari (come polmoniti, polmoniti fibrose e trombosi) all’età avanzata (sebbene i casi più gravi si aggirassero attorno ai 50 anni), equamente divisi tra maschi e femmine.
Lo studio: morti per altre patologie, ma con i tessuti devastati dal Covid
I casi analizzati dal gruppo di studio coordinato da Mauro Giacca sono relativi a un centinaio di pazienti che si erano infettati con il Covid “versione Wuhan” tra il 2020 e il 2021 e, dopo essere deceduti e sottoposti ad autopsia, erano stati segnalati per approfondimenti dalla dottoressa Rossana Bussani del reparto di Anatomia patologica.
“Va detto – premette Chiara Collesi, docente di Biologia molecolare dell’Università di Trieste – che i decessi nella quasi totalità dei casi sono avvenuti con un quadro diagnostico non correlato direttamente al Covid: alcuni pazienti anziani erano stati ad esempio ricoverati per una frattura al femore”.
“La caratteristica comune che abbiamo riscontrato – prosegue Collesi – è stata però quella di un quadro citologico e istologico del tutto sovrapponibile alle morti causate da un’infezione acuta da Sars-CoV-2. All’esame autoptico i tessuti sono cioè risultati devastati esattamente come avvenuto per esempio per i ben noti morti di Bergamo di inizio pandemia”.
La negatività apparente
Sono state dunque rivelate evidenze di polmoniti interstiziali focali o diffuse, accompagnate nella metà dei casi da estesa sostituzione fibrotica.
Ancora, sono state riscontrate frequenti anomalie citologiche, sincizi e la presenza di caratteristiche dismorfiche nella cartilagine bronchiale.
A sorprendere, sottolinea la ricercatrice, è stato il fatto che i deceduti risultavano negativi al tampone da almeno 10 giorni.
“Il caso limite – riprende – è quello di un 70 enne che presentava una polmonite fibrotica multifocale pur essendo negativo da ben 300 giorni. Ma cito anche un paziente negativo da 56 giorni deceduto per polmonite di grado 5 e un altro morto per polmonite con complicazioni cardiache nonostante la negatività al tampone da 78 giorni. Alcuni, che erano stati a lungo ricoverati, erano anche stati sottoposti a lavaggi bronco-alveolari”.
Le tracce virali, assenti nell’epitelio respiratorio e nelle vie aeree superiori, sono state però individuate nella cartilagine bronchiale e nell’epitelio ghiandolare parabronchiale.
“A livello profondo di alveo polmonare, bronchi e cartilagini – rivela Collesi – abbiamo trovato non solo l’rna, ma tutto l’apparato molecolare proteico responsabile dell’infezione: dalla proteina spike alla proteina “n”, responsabile della replicazione virale”.
Le deduzioni
“Questi aspetti – aggiunge la docente di Biologia molecolare – sono molto strani, perché è difficile che, essendo avvolta da una capsula, la cartilagine si infetti. Abbiamo quindi pensato che il virus abbia sviluppato una strategia di mimesi in compartimenti tissutali poco irrorati all’interno dell’organismo, proteggendosi così dalla reazione immunitaria dell’ospite”.
Se “spaventa l’astuzia virale di riuscire a nascondersi, cronicizzando l’infezione e potendo erodere dall’interno pazienti particolarmente fragili”, Chiara Collesi invita a non lasciarsi prendere dal panico.
“Tutti i morti sottoposti a esame – motiva – non si erano vaccinati, visto il periodo della loro infezione. E chi si è ripreso brillantemente dall’infezione, sta bene, si è vaccinato ed è asintomatico pensiamo che possa stare ragionevolmente tranquillo”.
Tra le ipotesi avanzate dagli studiosi c’è infatti anche quella che chi ha barriere immunologiche e cellulari adeguate “verosimilmente conceda meno tempo al virus anche per colonizzare i distretti remoti dell’organismo: questo virus sicuramente non sarà mai debellato al 100%, ma il corpo umano ha tutti i mezzi per bloccarlo fin dalla prima fase”.
Il virus riscontrato sporadicamente anche a livello cardiaco
Ecco perché, ritiene la docente, i tamponi, pur non servendo per intercettare la presenza del virus a livello per esempio di cartilagini, restano validi per contenere la diffusione dell’infezione ed evidenziarla in persone con patologie complesse. E anche il rafforzamento delle difese con la vaccinazione è indubbiamente positivo.
L’approccio clinico del controllo in profondità dei polmoni è invece teoricamente possibile anche sui vivi. Ma, sottolinea Collesi, “richiede broncoscopie e biopsie che sicuramente, anche per la loro invasività, non possono essere considerati esami di routine sostenibili dal sistema sanitario. La presenza dell’rna virale, del resto, è facilmente” rilevabile dai liquidi biologici”.
Va quindi sottolineato anche che, negli esami svolti a Trieste, un’indagine veloce di alcuni casi ha riscontrato sporadicamente il virus non solo nel distretto cartilagineo, ma anche a livello cardiaco, con alcuni vasi, alcune cellule sparse e l’endotelio risultati infettati.
“Non abbiamo pubblicato questi risultati – motiva la ricercatrice – perché l’esame non è stato esteso a tutti i pazienti, ma sono la conferma la diffusione subdola di questa “bestia””.
I punti aperti
Tra le questioni non affrontate dello studio, sulle quali i è quindi possibile fare solo ipotesi, Chiara Collesi è abbastanza tranquilla riguardo al peso delle diverse varianti sulla persistenza del virus nell’organismo.
“All’epoca – ricorda – la tipizzazione fine della variante non veniva effettuata di routine, per cui possiamo solo supporre quali modifiche avesse il virus nei casi analizzati. Possiamo comunque ipotizzare che ai cambiamenti delle proteine virali non si ricolleghi nessun comportamento diverso”.
I gruppi di lavoro triestini si stanno piuttosto incentrando sul collegamento della loro scoperta col long Covid.
“Sicuramente – conclude Chiara Collesi – può essere interessante un’ulteriore indagine se i sintomi come febbre cerebrale, fiato corto e senso di spossatezza siano dovuti a un’erosione dell’organismo. Una delle ipotesi che abbiamo avanzato è proprio quella che i tempi lunghi per la ripresa siano dovuti al fatto che l’organismo deve continuare a combattere contro il Covid”.
Alberto Minazzi