L’urbanista Marson (Iuav): “In Italia manca solo la sistematicità degli interventi. Possibile intervenire nei centri urbani attraverso il retrofitting, cioè lo studio delle modalità di riattare l’esistente
Le chiamano “sponge cities”, cioè città-spugna e ridefiniscono il nostro concetto di città.
Sono città “porose”, che respirano meglio perché meno impermeabili e pavimentate, che raccolgono l’eccesso di piogge in invasi sotterranei per recuperare l’acqua da utilizzare nei momenti di siccità e che evitano così il pericolo delle alluvioni, sempre più frequenti anche laddove in passato erano eccezioni.
Sono città più fresche d’estate, perché contrastano con una maggior presenza di verde le calure sempre più decise che si stanno manifestando come conseguenza dei cambiamenti climatici.
Nel mondo, sono sentite un po’ come una nuova sfida urbanistica, tanto che, di alcune città, si sta misurando la “spugnosità”, che diventa un nuovo parametro dei territori.
Insomma, si sta affermando una nuova visione.
L’Italia non è il fanalino di coda
L’Italia, da questo punto di vista, apparentemente è più indietro rispetto ad altri Paesi, come per esempio la Danimarca e la Cina, che al tema stanno dedicando grande attenzione .
“In realtà– sottolinea Anna Marson, professore ordinario dell’Università Iuav di Venezia e coordinatore del dottorato in Pianficazione territoriale e politiche pubbliche – possiamo dire che è cambiata solo l’etichetta: quel che conta è la sostanza degli interventi. Il concetto di base – prosegue infatti Marson -è quello della de-impermeabilizzazione del territorio, che sta venendo portato avanti in molte città europee. Compresa l’Italia, dove già da almeno una ventina d’anni non mancano i regolamenti edilizi e i piani urbanistici che prevedono norme in tal senso. Quello in cui possiamo migliorare riguarda quindi solo la sistematicità degli interventi”.
Lo studio di Arup sulle città-spugna nel mondo
A rilanciare l’attenzione sul tema del ripensamento delle città in tal senso per far fronte a piogge sempre più abbondanti e cambiamenti climatici è stato uno studio appena pubblicato da Arup. Partendo da alcune considerazioni, come il fatto che il 44% di tutti gli eventi catastrofici sono correlati alle inondazioni e che se il riscaldamento globale raggiunge i 4°, i danni diretti delle inondazioni aumenteranno tra le 4 e le 5 volte, è stata così esaminata la “spugnosità” 7 grandi città.
Attraverso l’utilizzo di “Terrain”, un apposito strumento di analisi dell’uso del suolo e di intelligenza artificiale, è stata dunque scattata “un’istantanea” di questi 7 centri urbani, calcolandone la quantità di aree verdi e blu e considerando l’impatto dei tipi di suolo e della vegetazione, arrivando quindi a definire il potenziale di deflusso delle precipitazioni di ogni singola realtà. Ne è emersa una classifica che la stessa Arup invita comunque a non leggere come valutazione assoluta del rischio, visto che alcune di queste città devono affrontare precipitazioni meno intense.
Come dire: anche la spugnosità va contestualizzata.
Con le città spugna, il nuovo indice si chiama “spugnosità”
La città con il centro urbano più spugnoso tra quelle analizzate è risultata la neozelandese Auckland, con un 35% di spugnosità,.
La segue Nairobi, in Kenya, con il 34%.
La città africana sorpassa però Auckland per aree verdi-blu (52% contro 50%) e ha, tra tutte e 7 le città prese in considerazione, il più alto potenziale di deflusso del terreno, composto quasi al 50% da sabbia e per più del 40% da argilla.
Sul terzo gradino del podio ci sono poi 3 città a pari merito, con il 30% di spugnosità: Singapore, l’indiana Mumbai e la statunitense New York.
Singapore, che ha un tipo di terreno di fascia media, simile a Shanghai, Auckland e Londra, supera New York per area verde-blu (45% contro 39%) e beneficia soprattutto dell’elevata presenza di infrastrutture verdi, in particolare di copertura arborea.
Anche Mumbai ha il 45% di spazio verde-blu, oltre a una grande quantità di alberi disseminati attorno agli edifici e un alto potenziale di deflusso del terreno.
Per New York, invece, lo studio evidenzia una maggiore quantità di copertura arborea rispetto all’erba.
Agli ultimi due posti, Shanghai (28% di spugnosità) e Londra (22%). Entrambe pagano la mancanza di spazi verdi e blu (33% e 31%), con un terreno leggermente più permeabile e una maggiore copertura di alberi per la città cinese.
L’Italia e la de-impermeabilizzazione del territorio
Tra le città analizzate dallo studio, Anna Marson ricorda come New York abbia avviato un piano di de-impermeabilizzazione già una ventina di anni fa.
“A Mestre, nel comune di Venezia – ricorda però – lo abbiamo fatto ancor prima, su iniziativa del Consorzio di bonifica che non riusciva più a garantire le prestazioni richieste. Già alla fine degli anni Ottanta, nel piano provinciale territoriale di Venezia, c’era ad esempio una norma sui parametri di non impermeabilità delle pertinenze”.
Il termine “città-spugna” ha intanto iniziato espressamente a comparire nei Piani del verde, come quello approvato a fine marzo a Padova, che lo inserisce al primo punto.
“I tentativi e le sperimentazioni per regolamentare il fenomeno dell’impermeabilizzazione del terreno, specie relativamente alle nuove costruzioni – aggiunge però la professoressa dello Iuav – sono molteplici e durano da anni. Non mancano dunque misure consolidate di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico e al fenomeno delle piogge intense”.
De-sealing e retrofitting
Ridurre al minimo le superfici esterne e le pertinenze aperte pavimentate nelle nuove costruzioni, per mantenere la capacità del terreno di assorbire l’acqua, è però tanto importante quanto di per sé insufficiente.
“Ovviamente – riprende Marson – se si costruisce sempre più, la capacità si riduce e queste misure non bastano più. La de-impermeabilizzazione riguarda anche il patrimonio immobiliare dismesso. Penso ad esempio alle enormi piazzole pavimentate a cemento e asfalto utilizzate a fini infrastrutturali all’esterno dei capannoni: togliere questa impermeabilizzazione è molto importante”.
Un esempio in tal senso è quello recente in cui, in Toscana, Legambiente ha promosso, con altri soggetti, la rimozione delle superfici impermeabili di un allevamento lungo la superstrada Firenze-Livorno, realizzandovi un parco. “Con una buona progettazione – sottolinea – ritengo che anche da noi sia possibile intervenire nei centri urbani, attraverso il retrofitting, cioè lo studio delle modalità di riattare l’esistente, che si presentano, in prospettiva, come una delle pratiche più interessanti.
Il “pentalogo” per la de-impermeabilizzazione
Anna Marson, allora, conclude stilando una sorta di “pentalogo” di buone pratiche che possono risultare importanti per recuperare la permeabilità dei terreni e fronteggiare così i rischi di inondazioni.
“La prima regola – elenca – è l’uso parsimonioso delle nuove edificazioni, che vanno fatte solo quando davvero necessario. In secondo luogo, la non impermeabilizzazione degli spazi aperti. Terzo, ove possibile, l’impiego di tetti verdi, che da noi finora ha avuto meno fortuna, perché è tema più complicato rispetto alla semplice de-impermeabilizzazione”.
A questi punti, relativi alle nuove costruzioni, la docente aggiunge la già citata de-impermeabilizzazione delle strutture dismesse e infine una buona pratica che possiamo “importare” dall’estero. “Penso agli esempi di Copenaghen o New York, dove da molti anni si interviene su strade e infrastrutture pubbliche, lungo vie pedonali e non, per ricavarne zone permeabili che garantiscano capacità di asportare l’acqua.
Perché come precursore delle città-spugna adesso si guarda alla Cina (che ha lanciato nel 2015 il progetto in 30 città, con l’esperimento di Lingang New City, costruita ex novo proprio secondo i nuovi princìpi, ndr). Ma, in realtà, loro vengono un po’ dopo, visto che molti progettisti europei sono stati chiamati lì per attuare questi interventi. Il merito dei Cinesi è stato quello di fare le cose in maniera più sistematica”.