Le opportunità e i limiti di una nuova ed interessante frontiera commerciale
Non è un mistero che negli ultimi 20 anni lo sviluppo cinese abbia suscitato in Italia e nel Veneto un grande interesse. Rappresenta infatti un’ancora di salvezza per molte aziende occidentali, dove il mercato è da tempo in stallo, aprendo un dibattito che unisce l’evidenza delle opportunità che si aprono, al timore per gli effetti sulla struttura industriale locale, con una forte enfasi spesso posta sui rischi di un processo di delocalizzazione o sui comportamenti competitivi dei concorrenti locali.
L’Italia, in ragione della propria specializzazione lungo la filiera della qualità della vita (alimentazione, abbigliamento, casa, lusso …) è tra i paesi che in questi ultimi anni hanno sofferto la crescente concorrenza dei prodotti cinesi. Nell’ultimo decennio si è avuta una consistente diminuzione delle quote di mercato in quasi tutti i comparti dell’abbigliamento (vestiario, calzature, ma anche accessori e gioielleria), dei beni per la casa (oggetti in vetro, ceramica, coltelleria, attrezzi, mobili, illuminotecnica), e in alcuni altri settori maturi (lavorazioni metalliche di base, cinescopi, ecc.), in cui spesso l’Italia occupava una posizione dominante nel commercio mondiale.
Durante una prima fase la concorrenza cinese, essenzialmente di prezzo, ha colpito in particolare i segmenti di fascia bassa della produzione, determinando una dura selezione tra gli operatori, una loro fuga verso la qualità – che in parte ha mitigato gli effetti sui valori delle esportazioni dell’Italia – e, in misura minore, la delocalizzazione di alcune attività verso la stessa Cina.
Ma ora il quadro generale sta cambiando. In Cina l’incremento del PIL dovrebbe attestarsi nel 2014 intorno all’ 8 per cento, un ritmo elevato ma leggermente inferiore a quello degli anni pre-crisi (intendiamo prima del 2008). Per l’economia cinese, ed è tale l’indirizzo perseguito dalle autorità cinesi di politica economica, rimane cruciale il processo di ricomposizione della crescita passando da una fase di investimenti ed esportazioni ad una nuova fase di consumi legati in via preferenziale al proprio mercato interno. Con buona probabilità la dinamica dei salari continuerà a essere sostenuta e la politica fiscale molto probabilmente confermerà un indirizzo accomodante, proseguendo nell’obiettivo di ridurre le disuguaglianze dei redditi e di ampliare il sistema di welfare (fonte: rapporto annuale 2013 Camera di Commercio di Venezia).
È evidente quindi che il “fenomeno Cina” ha aperto nuove sfide e spesso ha richiesto a molte aziende il coraggio di reinventarsi e di ripensarsi all’interno di un nuovo e più complesso paradigma. Ma qual è la situazione nel suo concreto? E quale approccio devono tenere le nostre aziende? Ci aiuta a rispondere alla domanda il Professor Tiziano Vescovi, Docente Universitario del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari Venezia e Direttore di IMA Lab (L’International Management to Asia, istituito nel 2012:
«Prima di tutto, se si intende entrare in un mercato complesso come quello cinese è assolutamente necessario comprenderne il contesto culturale, osservare e studiare i comportamenti del consumatore locale, le sue reazioni, i gusti e le sue attitudini di acquisto. Ricordiamo che ciò che le aziende vanno a proporre sono prodotti che devono essere venduti e quindi acquistati; pertanto devono piacere, essere funzionali e idonei per un mercato relativamente nuovo come quello cinese. Ciò può avvenire solamente se si superano i limiti dettati dallo storico etnocentrismo europeo, italiano e nel nostro caso veneto».
Ma quale fase stiamo attraversando ora? «È importante considerare che ormai abbiamo da tempo superato la fase di contraffazione dei prodotti; ma il mercato cinese ha di fatto anche superato la fase dell’esportazione dei prodotti verso l’estero, concentrando ora la propria attenzione sull’immenso mercato interno in cui il potere di acquisto è fortemente aumentato negli ultimi anni e il consumatore ha raggiunto una certa “maturità”. Entrare nelle logiche di questo mercato significa quindi internazionalizzazione delle nostre aziende locali ma soprattutto significa intraprendere un processo di ristrutturazione sia in termini di mentalità sia in termini di risorse».
Quali sono i settori italiani più presenti nel mercato cinese? «Senza dubbio il settore della meccanica è il più rilevante: si tratta in generale di aziende italiane con 50 – 100 addetti, che lavorano quasi esclusivamente per il mercato cinese nelle quali il personale è per il 90 – 95% cinese ma il management attualmente è di origine italiana, anche se iniziano ad essere sempre più frequenti i manager cinesi. Altri settori sono il settore dell’abbigliamento e calzaturiero, il settore dell’arredo inteso soprattutto come arredo casa ed infine a fatica si sta ritagliando un po’ di spazio il settore food anche se allo stato attuale risulta essere molto limitato. Abbiamo comunque osservato che un forte limite per una efficace penetrazione del mercato cinese è dettato dalla incapacità delle aziende locali di fare sistema, di condividere il know how e di creare pertanto una massa critica sufficiente. In generale poi una nuova azienda che si sia insediata in Cina impiega 2/3 anni per riuscire ad essere effettivamente fruttuosa e non dimentichiamo che anche i tempi per le trattative commerciali sono più lunghi che in Europa».
Per quanto riguarda gli investimenti cinesi in Italia e nel Veneto? «Ci sono vari limiti che impediscono gli investimenti cinesi qui da noi: l’incapacità di presentarsi come sistema, la mancanza di coesione nella presentazione dell’offerta, le risapute difficoltà e lungaggini burocratiche. Se consideriamo poi che ci sono circa 5.000.000 di turisti cinesi all’anno e che in molti casi sono costretti, per poter entrare in Italia a causa della legge Bossi Fini, ad ottenere un visto tedesco passando quindi necessariamente in Germania e quindi investendo o spendendo parte delle loro cospicue risorse in tale paese, possiamo capire da soli quanto lavoro dove ancora essere compiuto».
Cosa ci sa dire delle potenzialità di internet e del suo valore come canale di business? «Il problema dell’imprenditore è che pensa di poter fare business come in Italia. Se consideriamo poi che la reale conoscenza del web e delle sue peculiarità nella nostra area è molto bassa capiamo la complessità di questo settore. In più il paradigma cambia quasi completamente: non c’è Google ma Baidu: il motore di ricerca degli internauti del Dragone. Con più di 564 milioni di utenti unici – nel 2012 – , rappresenta una chiave d’accesso importante per le aziende italiane che vogliono raggiungere un mercato che potenzialmente include 1 miliardo e 300 milioni di persone, il più grande del mondo; Baidu offre enormi possibilità di visibilità e di vendita, ma se ne ha una conoscenza molto limitata, e le nostre aziende attualmente vi possono avere accesso solo in modo indiretto cioè tramite operatori locali. Il consumatore cinese è molto più social rispetto al nostro consumatore e soprattutto è abituato ad interagire online con le aziende; i siti internet sia nella presentazione dei contenuti, delle immagini e nella navigazione sono molto diversi dai nostri e pertanto non basta una mera traduzione del proprio sito italiano in cinese. Quasi sicuramente si dovranno avere in azienda uno o più operatori che parlino cinese; se si vuole vendere online si dovrà passare tramite Alibaba o Taobao. Infine, probabilmente l’azienda dovrà imparare a utilizzare i social cinesi (ad es. RenRen il Facebook cinese o Weibo il Twitter cinese)».
Ma vale la pena investire nel mercato cinese? «Se consideriamo che nei prossimi cinque anni la Cina dovrebbe strappare al Giappone il secondo posto tra i paesi più ricchi al mondo e che il consumo di beni di lusso da parte dei cinesi, che costituisce all’incirca il 30% del mercato mondiale, dovrebbe continuare a crescere con tassi mediamente a due cifre, una risposta affermativa è più che evidente. L’anno scorso il numero di cinesi che hanno viaggiato al di fuori del proprio paese è aumentato di circa il 25%2 e la spesa per beni di lusso è cresciuta in misura addirittura maggiore. Penso che a fronte di questi dati valga la pena strutturarsi ed organizzarsi adeguatamente».
IMA-Lab
L’International Management to Asia (IMA-Lab), istituito nel 2012 da un gruppo di ricercatori che da anni si occupa di management internazionale, è il laboratorio del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari Venezia che svolge la propria attività di ricerca, scientifica e applicata, nell’ambito dell’internazionalizzazione delle imprese con particolare riferimento ai mercati dell’Asia.
Riferimenti IMA-Lab:
Prof. Tiziano Vescovi – Direttore,
Dott.ssa Francesca Checchinato,
Dott.ssa Lala Hu.
Sito: http://imalabcafoscari.wordpress.com
Twitter: @IMALabCaFoscari