La prima Guerra Mondiale, di cui si celebra il centenario è stato un evento che ha segnato il nostro territorio e in qualche modo rappresenta ancora una lezione per il presente.
Q uella che oggi è la “Città metropolitana” cento anni fa erano tre città pienamente coinvolte sul fronte italiano della Grande Guerra. Venezia aveva più di 200 mila abitanti, 152 mila solo nel centro storico, ed era tra le dieci città più popolose del Regno. Aveva un’economia in espansione; puntava molto sul turismo e sull’arte. Era uscita dall’Ottocento dotandosi di tre istituzioni che le avevano restituito il ruolo di capitale: la Biennale, l’Università e un grande giornale a diffusione regionale, “Il Gazzettino”.
Padova sfiorava i centomila (96.118), la chiamavano la “piccola Manchester” per la diffusione delle fabbriche e per il numero di operai. Treviso, in pieno sviluppo, appena sopra i 33 mila abitanti.
Per molti mesi, soprattutto tra il 1917 e il 1918, le tre città subiscono incursioni aree e bombardamenti quasi ogni notte, sono a rischio invasione, affollate di truppe. Dietro la curva di Cavazuccherina, che era allora il nome di Jesolo, c’erano gli austriaci; se avessero sfondato il fronte passando la foce del Piave sarebbero arrivati dritti a Venezia. Treviso e la sua provincia erano la base della resistenza sulla linea del Piave che avrebbe portato alla Battaglia del Solstizio e a quella finale di Vittorio Veneto. Il futuro scrittore Bepi Mazzotti ricordava che era un bambino di dieci anni quando nelle strade di Treviso il 2 novembre 1917, un venerdì, aveva visto Luigi Cadorna, il capo dell’esercito italiano in ritirata: “Vedemmo un vecchio soldato dall’aspetto dimesso, con i baffi grigi, avvicinarsi col suo lungo cappotto alle rovine di una casa crollata nella notte. Un altro soldato più giovane lo seguiva rispettoso. La carogna di un cavallo con le gambe in alto impediva il passaggio…”.
Un racconto che restituisce il clima dopo Caporetto e il ritratto di un capo stanco che di lì a qualche giorno sarebbe stato sostituito. Padova era capitale della guerra, sede dei comandi, dimora del re; sarà città della pace perché vi si firmerà l’armistizio che metterà fine al conflitto. In qualche modo, in anticipo, si tratta già di una realtà da “città metropolitana”, seppure in quel momento adattata alle esigenze di un Paese in guerra.
Dal 1915 al 1918 l’intero Veneto è militarizzato e la vita civile piegata alle esigenze dell’esercito. In tre anni sono richiamati più di 600 mila veneti, l’ottanta per cento della popolazione maschile in grado d’imbracciare un’arma. Un caduto ogni dieci richiamati. La guerra impone cambiamenti: decine di migliaia di soldati affollano le retrovie, vivono, mangiano, consumano tra città principali e una moltitudine di paesi più piccoli. L’esercito si porta dietro anche certa illegalità, il consumo di alcolici, la prostituzione.
Un territorio sconvolto dai combattimenti e bombardamenti, per larghi tratti conquistato e poi invaso. Province occupate dai nemici dopo Caporetto e devastate, spogliate, violentate. Venezia-Padova-Treviso che all’inizio erano retrovia, si ritrovano in prima linea. Dal Gazzettino di un giorno qualsiasi di febbraio 1918: “Ancora le bombe dei barbari su Padova, su Mestre e Treviso”. Segue la cronaca: “A Padova allarme alle 3: quattro morti tra cui una donna e dieci feriti… Su Mestre ore 1,40 cadono 120 bombe, 18 morti tra cui quattro bambini, 17 feriti… A Treviso 30 bombe e 5 vittime…”.
I bambini muoiono a Venezia sotto le bombe: “Piccoli martiri, esistenze tenui e fragili, fiori puri di giovinezza stroncati, Lucia e Iolè”, scrive il Gazzettino. Una bomba è ancora conservata intatta nella Basilica dei Frari, caduta e miracolosamente inesplosa a pochi metri dalla grande tavola del Tiziano. Sospesa anche la processione del Redentore, le altane non sono più illuminate con lampioncini, sui tetti al buio si vigilia sulla sicurezza della città. La “note famosissima” subisce una trasformazione mai vista in secoli di festa votiva: “…de colpo ga cambià/ non più de feste el popolo/ la vogia sente in cuor/ non vol tripudi e musiche/ nol ga più bon umor”, dice una canzone rimasta nella memoria popolare. La canzone spesso restituisce l’atmosfera giusta, racconta meglio della storia il sentimento della gente e la vita quotidiana.
Ciò che colpisce è che in piena guerra a Venezia si gettino le basi della più grande trasformazione economica del Veneto della prima metà del Novecento e che la logica fosse già allora quella di una “città metropolitana”: per prospettiva, per coinvolgimento dell’imprenditoria veneta, per interessamento della grande impresa e della finanza. Soprattutto disegna un futuro che durerà un secolo, certo tra crisi e ricchezze, tra speranze e realtà amara. Farà crescere una classe imprenditoriale e una importante classe operaia. È pochi mesi prima di Caporetto che il finanziere veneziano Giuseppe Volpi mette insieme imprese di ogni genere: elettriche, ferroviarie, marittime, navali, siderurgiche, meccaniche, di costruzioni. Capitali privati di famiglie veneziane e capitali della grande industria italiana. Volpi vuole creare in laguna un moderno porto commerciale e una zona industriale che poggi su una nuova città che intende costruire a Marghera, per ospitare le popolazioni rurali attirate dagli insediamenti industriali. Pensa che Venezia debba essere protetta da certi effetti dell’industrializzazione per puntare su un futuro tutto turistico, ma non possa fare a meno di una grande sponda industriale che garantisca il rilancio economico.
Nello stesso periodo viene costituita la Società porto industriale di Venezia. Di sicuro si mette in evidenza una classe dirigente in grado di trascinare anche un progetto politico, di vedere lontano e di fare grande il Veneto. S’incomincia a lavorare quando ancora la guerra non è finita, i primi insediamenti saranno inaugurati nel 1922. Il Veneto diventerà in breve la terza regione industriale.
Una lezione per il presente. In un momento di grande emergenza economica, quella logica di mettere insieme le forze e sfidare le paure del momento puntando alla costruzione di un grande futuro, potrebbe essere attualissima. In fondo, il Duemila di Venezia si gioca sul terreno lasciato libero dalla grande intuizione di Volpi.