Guido Rosselli e Andra Mandache sono i due capitani dell’Umana Reyer: l’unica realtà del basket italiano che ha una prima squadra maschile e una femminile entrambe in serie A
GUIDO ROSSELLI
«Il basket è uno sport logico per gente intelligente. Se non ci arrivi, lascia perdere». La famosa definizione del guru del giornalismo cestistico Sergio Tavcar gli si addice alla perfezione. Sul parquet capisce sempre quello che succede e quasi sempre prima degli altri. Del resto lui stesso si definisce «una persona logica nella vita e in campo». La Nba lo interessa il giusto, cioè quasi zero, ma di Eurolega è un fine intenditore. Per concentrarsi prima delle partite non ascolta musica a rischio sincope, indossando cuffie abnormi. Preferisce fare la Settimana Enigmistica, parole crociate, meglio se quelle di Bartezzaghi. E intanto ripassa i giochi della squadra e quelli degli avversari. A fine carriera si vede tra le vigne e gli olivi sulle colline di casa e a dare una mano alla Use Empoli, la sua seconda famiglia, la società che l’ha cresciuto e lanciato nella pallacanestro nazionale. Insomma, diteci come si fa a non amare Guido Rosselli, il nuovo capitano reyerino della stagione 2013-‘14? In verità i tifosi orogranata lo adorano già da un pezzo, per le sue raffinate qualità tecniche, per la sua dedizione agonistica e per la sua spontanea semplicità. E lo fanno da ben prima che entrasse nel giro della nazionale e, insieme a Daniele Magro e Luca Vitali, indossasse la maglia azzurra agli Europei dello scorso settembre. Alla vigilia della sua terza stagione con la maglia dell’Umana Reyer è diventato prima il punto fermo della ricostruzione estiva, insieme a Magro; poi il nuovo capitano della prima squadra maschile. Se c’era un giocatore in grado di potersi accollare la pesante eredità di Alvin Young, quello era proprio lui. Pazienza se ogni tanto dovrà mettere la sordina ai suoi tipici brontolii da buon toscanaccio, che gli hanno attirato il soprannome di “Bartali”. Non gli ci vorrà molto per calarsi nel ruolo, per un giocatore che si è guadagnato la stima di avversari e tecnici dell’intera serie A, grazie ad un’intelligenza cestistica ampiamente sopra la media della pallacanestro attuale.
Come e cosa ti ha detto la società quando ti ha nominato capitano? «A comunicarmelo sono stati il presidente Brugnaro e il direttore generale Casarin. Mi hanno chiesto di essere sempre presente, di aiutare i compagni, di essere un riferimento per i giovani del settore giovanile, di tenere i rapporti con i tifosi, insomma tutto quello che ci si aspetta da un capitano».
Quali le prime impressioni dall’interno dello spogliatoio in questo avvio di campionato dell’Umana Reyer? «Il fatto che io, Magro e Vitali siamo arrivati tardi dagli Europei in questa prima fase non ci ha favoriti. Ma stiamo lavorando bene come squadra, stiamo andando nella direzione giusta. Sono tutti ragazzi superpositivi, nessuno accentra e tutti rispettano il proprio ruolo».
Quale aspetto ti ha fatto diventare un punto fermo della squadra? «La mia polivalenza credo, che poi è sempre stata una mia caratteristica. Il saper fare tante cose e il farle quando serve. E quest’anno non è soltanto una prerogativa mia, ma anche di Vitali e Linhart per esempio».
Se ti guardi indietro scorgi qualche rimpianto? «Ho sempre fatto il mio e sono sempre stato contento delle mie scelte. Non ho mai deciso per meri motivi economici o di minutaggio. Ho sempre cercato di scegliere contesti in cui c’erano obiettivi chiari».
Ti sei mai sentito sottovalutato? «No. Non ho mai avuto rancori rispetto anche a scelte non mie, le ho sempre accettate, senza pensieri verso quello che avrebbe potuto essere. Sono sempre stato sereno».
Cosa ha rappresentato per te la convocazione in Nazionale? «Già Recalcati tempo fa mi aveva scelto per far parte del gruppo azzurro. Il fatto che alcuni anni dopo lo abbia pensato anche un tecnico come Pianigiani, è stata una grande soddisfazione. La considero un po’ come un premio per il lavoro fatto in tutti questi anni».
Il tuo percorso verso la serie A è stato lungo. Com’è cominciato? «Con la scelta di muovermi da Empoli e andare a Riva del Garda seguendo il mio allenatore, Billeri. Volevo vedere come potevo stare lontano da casa e se ero adatto a questa vita. Il fatto di poterlo fare con il tecnico che mi aveva cresciuto e che di fatto era un amico di famiglia, ha aiutato questa scelta. In quei tre anni ho fatto vita da vero professionista, due allenamenti al giorno, a volte tre e talvolta anche al lunedì. Erano stagioni davvero lunghe e impegnative».
Se dovessi spiegare a un ragazzino, perché oltre alla Nba dovrebbe guardare qualche partita di Eurolega, come glielo spiegheresti? «È una competizione dura, tosta, dove giocano i migliori d’Europa e, tra questi, tanti potrebbero giocare oltreoceano. Non si gioca per lo spettacolo, ma per vincere. Con più di ottanta partite a stagione come in Nba è normale che ci siano sbalzi di rendimento. Nell’arco di una stessa partita si può andare sotto di venti e sopra di venti in un attimo. Segno che non si gioca sempre al massimo. In Eurolega invece vedi delle grandi letture, gioco e un livello fisico che si alza di conseguenza. È senz’altro la pallacanestro più bella. Nemmeno allo Olimpiadi o agli Europei si arriva a quei livelli, anche perché spesso molti dei più forti giocatori sono assenti».
C’è un allenatore o una squadra di Eurolega che ammiri in particolare? «Subisco il fascino della Grecia. Giocare per una delle due squadre greche, Panathinaikos o Olympiacos sarebbe un sogno per chiunque. La scorsa estate ho partecipato al torneo dell’Acropolis ad Atene, sul campo del Pana. Un impianto enorme che fa impressione già così. Se poi ci giochi con quindicimila tifosi che non smettono mai di cantare, diventa qualcosa di incredibile».
Perfino tua moglie ti vede bene nelle vesti di allenatore. Come mai tu non ne sei del tutto convinto? «In tanti me lo dicono. Ma non so se sono adatto per questa professione. È tanti anni che sono via da casa. Ora come ora mi vedo ad Empoli. Quando non giocherò più, mi farò il tesserino e darò una mano alla società che mi ha cresciuto. Vorrei ricambiare il favore per avermi permesso di avere una carriera da giocatore professionista».
Al limite aprirai un’azienda agricola, un desiderio che hai già espresso… «Può darsi, mi piacerebbe, anche se è una cosa molto impegnativa e va ben meditata. La campagna è sempre stata il mio habitat. Mio nonno aveva della terra e io sono cresciuto tra gli olivi e le vigne. Quando c’era da fare la raccolta delle olive o era il tempo della vendemmia, tutta la famiglia si riuniva e partecipava ai lavori. Io per primo, sin da quando avevo quattro cinque anni».
Quale il momento più bello in maglia orogranata? «Sicuramente il derby del primo anno di A con Treviso, nel girone d’andata. Il palazzo pieno, il sostegno incredibile dei nostri tifosi. Una vittoria resa ancora più speciale da quel finale punto a punto, deciso dalla tripla di Szewczyk. Dal punto di vista personale, la gara contro Milano dell’anno scorso, con il mio canestro da tre all’ultimo secondo che ha mandato la partita ai supplementari. Peccato solo alla fine non aver vinto …»
Che cosa ti senti di promettere ai tifosi per questa stagione? «Che saremo una squadra che lotterà fino alla fine e che ci batteremo sempre».
ANDRA MANDACHE.
Parla sei lingue, ha girato mezza Europa e l’Italia la conosce da cima a fondo. Nella sua Romania ha vinto un titolo nazionale con la squadra “sbagliata”, nel senso che lo ha fatto vincendo in finale contro la formazione di Arad, la sua città di origine. Nonostante il talento e la facilità di fare canestro, in Italia ha frequentato soprattutto i campi dell’A2 femminile. Una carriera imprevedibile, dunque, ma anche ricca di luoghi, lingue e culture diverse, quella di Andra Mandache. Tutte esperienze che le verranno utili nell’inedito ruolo di capitana. Come ad esempio quella vissuta nella Repubblica Ceca, quando da giovanissima si imbatté con la pallacanestro femminile ai massimi livelli. Una lezione che servì a lei e il cui ricordo potrà potrà essere utile anche alle tante giovani di cui è composta la Reyer tornata sul palcoscenico della serie A1. La trentunenne ala rumena è alla sua seconda stagione in maglia orogranata, dopo essere stata la trascinatrice della formazione che lo scorso anno ha sbaragliato la concorrenza in serie A2. Conosce il gruppo e soprattutto sa come tenere a bada le “ragazze terribili” del vivaio lagunare che dalla B hanno riportato in soli due anni i colori orogranata nel massimo campionato nazionale. Sono loro al centro di questa nuova Reyer che, anche grazie ad innesti di esperienza e qualità come Zara, Ruzickova e McCallum, vuole diventare la variabile impazzita della serie A1.
Come hai reagito alla notizia della tua nomina a capitana? «Io stessa sono rimasta sorpresa. Sono alle prime armi, ma è una bellissima esperienza. Ho scoperto che non è per nulla facile. Devo essere molto più attenta a tutto quello che succede, devo pensare di più alla squadra e un po’ meno a me stessa. Ringrazio la società per la fiducia che ha riposto in me».
Dovrai tenere a bada la vivacità di una squadra dall’età media bassissima… «Per fortuna le nostre giovani in campo sono brave e disciplinate… Scherzi a parte, non sembrano affatto delle ragazzine. Anche perché molte di loro hanno già avuto esperienze lontano da casa. Hanno una mentalità già formata e tanta voglia di apprendere. E poi hanno la fortuna di avere in squadra la giocatrice italiana più esperta in assoluto come Francesca Zara. La Reyer è l’unica società che dà così tanto spazio alle giovani. Queste ragazze devono capire che per loro è una grande opportunità».
Hai già giocato in A1, ma nonostante il tuo talento in Italia hai frequentato soprattutto la serie A2. Come mai? «Questione di circostanze e di scelte. Qualche anno fa tra l’altro l’A2 era decisamente più competitiva. Per non parlare della serie A1: quando sono arrivata per la prima volta in Italia nel 2002, c’erano almeno quattro, cinque squadre competitive a livello europeo. La mia ultima stagione in A1 l’ho trascorsa ad Alcamo, un’esperienza in parte positiva, in parte meno».
Quali le sensazioni del ritorno in A1? «Quest’anno sento di più l’approccio alla massima serie. Prima di tutto c’è una grande unità di squadra. E poi abbiamo una gran voglia di dimostrare che questa A1 ce la meritiamo e il fatto che l’anno scorso abbiamo dominato il campionato non significa che fosse tutto facile. Non puoi vincere tutte quelle partite senza dare il massimo».
Avete iniziato giocando contro le migliori formazioni. Un impatto forte. Potrà servirvi? « Quest’anno dovremo lavorare… il doppio! Qui tutte le squadre hanno elementi esperti e non siamo più noi la squadra da battere come accadeva in A1. In poche parole: dobbiamo farci un mazzo così».
Come ti sei trovata a Venezia? «Sono fortunata perché la bellezza di Venezia, beh, non ha bisogno di presentazioni… In più basta fare pochi chilometri e trovi città come Treviso, o Padova. E poi ho la fortuna di essere in una società davvero seria. Noi giocatrici siamo davvero tranquille, non abbiamo nessuna preoccupazione fuori dal campo, siamo seguite sotto tutti gli aspetti».
Quale invece l’esperienza più difficile che hai dovuto affrontare in carriera? «Nella Repubblica Ceca con il Ružomberok. Ero giovanissima. Lì ho capito davvero che l’alto livello era… un altro livello! È stata dura. Era una delle società più competitive di Eurolega. La competizione era altissima, lo spazio poco. Mi hanno preso e messo al mio posto e lì sono rimasta. E ho capito molto da quell’esperienza, soprattutto quanto lavoro avevo ancora da fare».
Tua mamma ti aveva iniziata alla danza da piccola. Invece sei rimasta nel solco familiare… «A dodici anni ero già un metro e settanta: mi ci vedete volteggiare leggiadra sulle punte? Non era proprio il caso… In realtà vengo da una famiglia di sportivi. Mia mamma è stata una giocatrice di pallamano. Mio papà, oltre ad essere stato un discreto giocatore, è stato allenatore della nazionale femminile di basket. E per la prima volta ha portato la Romania alla fase finale degli Europei. Io stessa ho fatto parte della nazionale e non è facile avere il proprio padre come allenatore. Con me era ancora più duro perché doveva dimostrare che non c’erano preferenze. Per fortuna poi a casa, di basket era vietato parlare: altrimenti mia mamma si arrabbiava…»
Chi è Andra una volta smessi i panni dell’atleta? «Sono proprio come mi vedete in campo. Sono istintiva e mi piace socializzare. Mi piace uscire, conoscere gente, ma allo stesso tempo ci tengo ad avere degli spazi per me».
A una come te, il calore dei tifosi veneziani non può che fare piacere… «Non mi aspettavo che ci seguissero ovunque. È davvero bellissimo! Persino a Priolo, in Sicilia, che non è proprio vicino. E poi sono sempre gentili e ci viziano pure. Ad esempio ci portano le pastine dopo gli allenamenti. Per la promozione della scorsa stagione ci hanno addirittura regalato delle magliette celebrative con tutti i nostri nomi. Anzi approfitto per ringraziarli ancora!»
Ci puoi descrivere il vostro coach, Andrea Liberalotto? «In campo è sempre pieno di energia. Non smette mai di parlare, è predisposto a fare tantissime cose ed è il primo a volersi migliorare. Dicono che sia giovane, ma in realtà si è già fatto un bagaglio di esperienza importante nello staff tecnico della Reyer nelle scorse stagioni di A1. In campo è forte, di polso, ma sa anche quando è il momento di ascoltare e dialogare. Fuori è una persona molto simpatica».
Cosa prometti da capitana ai tifosi reyerini per la stagione? «La mia promessa è quella di metterci sempre il massimo impegno da parte di tutte. Vedranno sempre un miglioramento. Vogliamo vincere il massimo delle partite possibili e speriamo di arrivare ai playoff, perché no? Quel che è certo è che vedranno massima devozione per la maglia che portiamo».