Da piccolo aveva solo un sogno: vincere con i Lakers. E ce l’ha fatta. Poca casualità e tanto impegno nella carriera del due volte campione Nba Vujacic. Che in poche settimane ha dimostrato anche con la maglia dell’Umana Reyer cosa vuole dire essere un vero leader
Ci abbiamo anche provato a fargli una domanda inedita sul suo rapporto con Kobe Bryant. Non che l’interrogativo fosse particolarmente illuminato («Hai mai smarrito le chiavi della macchina e sei stato costretto a chiedere un passaggio in elicottero a Kobe per tornare a casa?». Il motivo della strampalata richiesta stava in una delle “leggende-non leggende” sulla stella dei Lakers che – stando alle cronache – talvolta si affida a voli di breve distanza per evitare il traffico losangelino). La risposta di Sasha Vujacic («Mai perse le chiavi in vita mia») e il sorriso sornione, come per dire che “tra stelle di prima grandezza non ci si dà passaggi fuori dal campo”, ha definitivamente dato l’impronta a questa chiacchierata con il campione sloveno, arrivato a Venezia nel finale di stagione per raggiungere quei playoff poi sfumati.
Si tratta dunque di un’intervista totalmente “Sharapova-free” e “Kobe-free”. Una rarità, perché, nonostante una carriera che parla da sola (due anelli, 478 presenze e 2.998 punti nel campionato Nba) il buon Sasha continua anche a distanza di anni a doversi sorbire domande ormai stinte su illustri personaggi che però fanno parte del suo passato. Tutto questo non ha mai aiutato a comprendere il reale valore di un atleta capace oltreoceano di costruirsi una carriera di incredibili successi, superiori a quelli di molti illustri colleghi. La capacità di mettere il suo talento al servizio di un preciso percorso professionale, comprendendo che nella Nba – nel ruolo “specialista” – avrebbe potuto togliersi maggiori soddisfazioni che non giocando a tutto i costi da “prima punta”, è uno dei maggiori meriti della carriera di Vujacic.
Ambizione e umiltà non sono per forza caratteristiche antitetiche. Quando poi sono tenute insieme da un collante chiamato intelligenza, non deve stupire che anche un due volte “campione del mondo” si sia inserito con rispetto e attenzione nei meccanismi di una squadra con tante opzioni (e tanti limiti), anche a costo di un tiro in meno e un passaggio in più. Il suo atteggiamento è stato semplicemente logico e dettato dalla necessità di comprendere prima il contesto e poi di attuare le azioni necessarie. La sue prestazioni nella vittoria contro Reggio Emilia, fresca vincitrice dell’Eurochallenge, e nella sconfitta con Roma, sono state un distillato di tutto questo: temperamento, leadership, sacrificio difensivo (naso rotto compreso) e pulizia tecnica. Peccato solo che non ci sia stato tempo per ridefinire gli equilibri della squadra attorno alla sua figura.
Cosa hai visto a Venezia che ti ha convinto a venire qui? «È stata una sfida prima di tutto. Volevo aiutare questa società a raggiungere i propri obiettivi. Inoltre ho mosso i miei primi passi qui vicino, a Udine. Per me è stato un po’ come tornare a casa. È vero che la mia famiglia è ormai in America, ma in Slovenia ho le mie origini. Mia nonna vive ancora a Maribor. Volevo andare ai playoff con la Reyer. È stato un peccato non esserci riusciti. Ma qui si può vincere».
Che impatto hai avuto con il campionato di Serie A? «Non è che uno arriva in un posto e può essere come Harry Potter, che cambia tutto per magia. Mi spiace davvero molto non essere riusciti a centrare l’obiettivo che avevamo. Evidentemente questo era il massimo che si poteva fare. Forse non ci siamo capiti tra di noi, io sono venuto qui solo per essere di aiuto alla squadra. Spiace per la gente, per i tifosi. Dobbiamo a tutti i costi essere realisti e guardare a quello che è stato fatto».
Cosa ti porterai dentro di questi mesi in laguna? «È stata un’esperienza bellissima e particolare. Non ho mai nascosto che Venezia è una delle mie città preferite. Sono riuscito a viverla più a fondo e non solo da turista. Ho trovato una società con grande voglia di crescere e che può farlo in fretta, le capacità ci sono. E poi gli appassionati qui non sono legati semplicemente alla vittoria o alla sconfitta. Hanno una grande storia, fatta di campioni come Dalipagic. È straordinario come ci hanno sostenuto e capito le nostre difficoltà».
Come hai trovato il basket italiano dopo dieci anni? «Diverso. Quando ho iniziato io c’erano ad esempio molti giocatori che poi sono anche andati nella Nba, come Ginobili. Però ho trovato un gioco più veloce. Tendenzialmente lo vedo in crescita. L’esempio è Milano, è la squadra che sta tracciando la strada. Sono testardi, hanno voglia di vincere a tutti i costi. Nonostante le sconfitte degli ultimi anni, hanno fatto un percorso importante in Eurolega. Il prossimo anno li vedo alle Final Four. Ma ci sono altri esempi, come quello di Reggio Emilia che ha vinto l’EuroChallenge».
Hai giocato ai massimi livelli da una parte e dall’altra dell’Atlantico: le due sponde si stanno avvicinando o allontanando? «Fra dieci anni sarà tutta una unica lega, con squadre americane ed europee. Ci sono squadre in Europa già pronte. Confronti ce ne sono stai ormai molti, come quando con i Lakers andammo a giocare a Londra. Il basket è in crescita anche come stile di gioco. Lo si vede quando nella Nba si entra nella fase dei playoff. Lì il livello fa un salto di qualità fortissimo. Non tutte le trenta squadre sono costruite per vincere. Ma quelle che arrivano a quel punto sono decisamente di un altro livello».
Quanto è stato importante l’apporto dell’Europa alla crescita della stessa Nba? «Per molto tempo si è detto che la Nba “rubava” i migliori giocatori europei. Per tutti però il sogno era quello di essere lì. Semmai sempre più allenatori e società hanno capito che puntare sugli europei era una scelta vincente. Il basket si sta davvero sempre più globalizzando. Un esempio per tutti quello di Popovich a San Antonio, grandissimo allenatore e grande società. Il giusto “mix” tra giocatori americani e non americani è il segreto per vincere. Non tutte le squadre lo fanno, ma sono sempre di più, perché i risultati arrivano».
Come descriveresti a chi non lo ha mai visto da vicino il lavoro che fa il club più importante del mondo, i Los Angeles Lakers? «È un altro mondo. È persino difficile spiegare in Europa cosa significhi lavorare in un contesto del genere. L’atleta lì deve solo garantire la sua preparazione fisica e mentale. A tutto il resto, ma davvero a tutto, ci pensa l’organizzazione del club. Dalle grandi cose, fino ai minimi dettagli. Non è però una realtà a cui si può arrivare in un giorno. Essere sulla strada giusta è già importante, per crescere gradualmente. Qualche top club europeo si avvicina già, come ad esempio il Cska».
Cosa manca alla tua carriera che non hai ancora raggiunto? «Non ho rimpianti. Si poteva forse fare qualcosa di più. Ma ho lavorato tanto e sono orgoglioso di quello che ho fatto nella mia carriera. E non voglio certo smettere. Anzi ho una grande voglia di vincere qualcosa, di alzare ancora trofei. Se mi vedo più in America o in Europa? Io mi vedo dove potrò competere per qualcosa di importante. Non farò una scelta per restare ad un livello medio».
Che lezione lascia questa stagione dell’Umana Reyer? «Per vincere, devi prima perdere. È una delle cose più importanti che ho imparato nella mia carriera. E quando le sconfitte fanno più male, si devono trovare motivazioni ancora più grandi. Ricordo, quando ero ai Lakers, quanto ci ferì la sconfitta in finale con i Boston Celtics. Un risultato che ci bruciò moltissimo. Ma ci servì e l’anno successivo fummo noi a trionfare. A volte non è un male non arrivare ai playoff. Andarci solo per dire che ci si è arrivati, può non essere utile. Ai playoff si va per essere competitivi. Per questo non è un dramma essere rimasti fuori, anzi può aiutare a crescere, a prendere delle decisioni in vista della nuova stagione».
ALEKSANDER “SASHA” VUJACIC
Sloveno di Maribor, nato l’8 marzo del 1984, Aleksander “Sasha” Vujacic, è una guardia di 201 centimetri dalla grande esperienza ai vertici dell’NBA dove ha vinto 2 titoli da protagonista con i Los Angeles Lakers.Vujacic ha iniziato giovanissimo la sua carriera in Italia giocando dal 2001 al 2004 con Udine. Nel 2004 è arrivata la chiamata in NBA da parte dei Los Angeles Lakers dove ha giocato fino al 2010. Con la franchigia gialloviola si è specializzato nel ruolo di tiratore arrivando a toccare il 43,5% da tre nella stagione 2007/2008, divenendo stabilmente la riserva di Kobe Bryant e risultando decisivo in varie occasione come in gara-3 della Finali NBA 2008 con 20 punti realizzati contro i Boston Celtics. Nel 2010 è passato ai New Jersey Nets dove ha alzato il suo minutaggio, mentre le due stagioni successive è tornato in Europa, in Turchia, giocando nell’Anadolu Efes Istanbul. Quest’anno, prima di approdare all’Umana Reyer a fine marzo per disputare l’ultima parte della stagione con gli orogranata, è tornato in NBA disputando due partite con i Los Angeles Clippers.