Pregliasco: “Il rischio c’è”. Bassetti: “Inevitabile, bisogna essere pronti”. Andreoni: “Non sembra però il momento di una nuova pandemia”.
“I virus aviari, insieme ai coronavirus, sono i più temuti, tant’è che molti ricercatori ritengono che, per la loro dimostrata adattabilità all’uomo, sarà uno di questi a provocare la prossima pandemia. Anche se, al momento, possiamo dire che non sembra essere ancora arrivato questo momento. Non mi sentirei insomma di lanciare particolari allarmi dopo le notizie che continuano ad arrivare dagli Usa e soprattutto di quelle provenienti dal Messico”.
Massimo Andreoni, virologo del Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana malattie infettive, pur ritenendo “giusto stare a vedere” e confermando l’invito a “massima attenzione e grande cautela”, ridimensiona così i timori dopo che si è registrato nel Paese centramericano il primo caso di un uomo, poi deceduto, contagiato dal virus H5N2. Un ceppo diverso dall’H5N1 che negli Stati Uniti ha causato focolai in oltre 80 mandrie di 10 Stati (l’ultimo lo Iowa), con 3 persone infettate.
“Il fatto che il caso – aggiunge Andreoni – risalga ad aprile è un elemento di tranquillità, perché se il virus, nel corso delle mutazioni che avvengono nei salti di specie, avesse già acquisito la capacità di passare da uomo a uomo in Messico ci sarebbero stati molti più casi. Sulla base delle informazioni di cui siamo in possesso, al momento sembra dunque un caso probabilmente sporadico, riguardo al quale non sappiamo se ci siano stati contatti diretti con volatili infetti o con le loro feci”.
Il rischio contagio uomo-uomo
A dar vita ai timori, relativamente al 59enne messicano affetto da altre patologie, che è morto a una settimana dalle prime manifestazioni di sintomi poi ricondotti al contagio da H5N2, è il fatto che resta ignota la fonte del contagio, non essendo stato riferito alcun contatto con pollame o altri animali portatori del virus.
Questo circola infatti da tempo tra il bestiame del Messico, con un picco tra il pollame lo scorso marzo, ma finora non era stato confermato nessun caso umano.
Si apre così la possibilità di una trasmissione diretta tra persone.
“Il passaggio uomo-uomo – sottolinea Fabrizio Pregliasco, professore di Igiene all’Università di Milano e direttore dell’Irccs Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio – può indubbiamente avvenire. Al momento, da quanto è emerso, la situazione non è però tale da doverci preoccupare come singoli, perché il rischio per la popolazione è ancora basso. Piuttosto sono le istituzioni a dover tenere alta l’attenzione epidemiologica e soprattutto la sorveglianza complessiva su uomo e animale”.
“Questo caso – conferma anche Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie infettive dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova – è preoccupante perché, da quel che dicono le autorità messicane, non è correlato a esposizioni ad animali. Potrebbe quindi essere solo la punta dell’iceberg, con altri casi umani di contagio che potrebbero essere sfuggiti al sistema sanitario, così come non si può escludere che la trasmissione sia avvenuta da uomo a uomo”.
Le strategie verso una nuova pandemia
Il caso messicano è stato notificato il 23 maggio all’Organizzazione Mondiale della Sanità, che non ha ritenuto di elevare il livello di rischio per la popolazione, che resta dunque basso.
“Mi auguro – continua Bassetti – che l’Oms voglia andare a capire cosa succede in quest’area del Mondo, testando altri pazienti. Ovvero faccia quello che si sarebbe dovuto fare nel 2019 a Wuhan. Perché il salto del virus dell’aviaria è già avvenuto e il mondo scientifico sa che ci sarà una futura pandemia: è inevitabile, bisogna capire il quando”.
Tra le eredità lasciate dal Covid, va ricordato, c’è anche il Piano pandemico 2023-2028, che contiene tra gli altri alcuni concetti ripresi dal medico genovese.
“Dai primi casi del 2002 nel Sud-Est asiatico, il virus dell’aviaria ha girato gran parte delle specie animali, avvicinandosi sempre più all’essere umano. Prima o poi, è sempre successo, ci sarà la mutazione che rende possibile la trasmissione uomo-uomo. L’augurio è di essere allora pronti ad affrontare la possibile pandemia, imparando la lezione del 2020”.
“La minaccia dei virus aviari – approfondisce Pregliasco – è nota già dal 1997, nel 2005 ha fatto pensare il peggio, poi il Covid l’ha superata a destra. Rispetto al passato, quando contagiava a fiammate solo alcuni uccelli e mammiferi, ora sono ampiamente diffuse nel mondo, in questo momento in particolare con 2 varianti, la H5N1 soprattutto tra i bovini americani e la H5N2, ognuna a loro volta con 2 forme cliniche: una altamente patogena e una a bassa patogenicità”.
A oggi, va ricordato, non esiste un vaccino per la nuova variante di aviaria. E un recente studio ha evidenziato come anche il latte crudo possa essere un pericolosissimo vettore di diffusione del virus H5N1, almeno tra i topi, ma non si può escludere lo stesso effetto anche sull’uomo.
“Anche a prescindere dall’aviaria – conferma il medico milanese – la pastorizzazione del latte è fondamentale per garantire la qualità dell’alimento anche da insidie come salmonella o escherichia coli”.
I virus aviari: cosa c’è da sapere
Come illustra Pregliasco, i virus dell’influenza di tipo A, anche umana, si distinguono per due proteine presenti sulla loro superficie.
La emoag-glutinina, indicata dalla “H”, che agisce come la “spike” del coronavirus, e la neuraminidasi (“N”), cioè l’enzima che “sgancia” il virus che cresce sotto la membrana cellulare, permettendone la diffusione. I vari ceppi appartengono dunque alla stessa famiglia di virus, che provocano una malattia abbastanza importante, con conseguenze neurologiche ed emorragiche.
Si tratta di virus ad alta letalità.
Per H5N1, di cui si sono registrati un migliaio di casi, si arriva, chiarisce Andreoni, al 50%, rispetto per esempio all’iniziale 3% del Covid.
H7N9, altro ceppo di origine medio-orientale di cui sono noti negli anni quasi 2 mila casi nel mondo, arriva al 30%.
Il rischio per l’uomo si lega alle mutazioni che intervengono nei salti di specie, come comunque, aggiunge il medico romano, “non necessariamente sono in grado di scatenare effetti pandemici”.
“Come insegna il Covid – approfondisce Pregliasco – i virus non si replicano in modo preciso e sfruttano questo loro essere disordinati per trovare nuove varianti. La maggioranza sparisce subito, ma qualcuna può invece diventare efficace ai fini di una amplissima diffusione. Quel che inquieta è allora che gli animali continuano a volare e possono così diffondere la malattia. Al tirar delle somme, c’è comunque da aver paura, anche perché, a oggi, i rischi sono per chi vive a contatto con animali malati, non per chi li incrocia”.
È in tal senso che si guarda anche all’evolversi della situazione negli allevamenti Usa. “Il fatto che H5N1 sia passato alle mucche – commenta Andreoni – crea un minimo di preoccupazione perché, quando non c’è il salto di specie diretto uccello-uomo, il passaggio intermedio con un mammifero può produrre mutazioni che possono rendere più facile la successiva trasmissione uomo-uomo. Al momento sembrerebbe però che, nel passaggio ai bovini, il virus abbia perso patogenicità, causando solo congiuntiviti e raffreddori”.
Alberto Minazzi