Uno studio individua una componente genetica che rende le donne più predisposte a svilupparle. Il punto sulla ricerca delle cure
È fondamentale per proteggerci dalle insidie esterne; ma lo stesso sistema immunitario, se va in tilt, diventa un nemico, potendo andare ad attaccare i tessuti del nostro organismo.
È il fenomeno di quelle che, nel loro insieme, vengono definite “malattie autoimmuni”, che comprendono un ampio ventaglio di tipologie, assai diverse tra loro.
Si va da asma e asma bronchiale alla celiachia, dell’artrite reumatoide alla sclerosi multipla, dal lupus eritematoso sistemico al diabete di tipo 1.
E poi una serie di altre malattie con nomi più tecnici e solo in alcuni casi più o meno note alla popolazione. Per esempio, le malattie di Crohn e Addison, la tiroidite di Hashimoto, la sindrome di Sjogren. O, ancora, la dermatomiosite, la sclerodermia e la miastenia gravis.
Patologie che prendono di mira il sistema immunitario e che, si calcola, interessano in Italia almeno 200 mila persone di ogni età, con un trend di costante crescita e un dato comune: colpiscono soprattutto le donne. In tutto il mondo, l’80% delle persone che ne soffrono sono infatti di sesso femminile.
Il mistero del rapporto tra sesso e malattie autoimmuni
Per oltre una sessantina d’anni, il mondo scientifico si è interrogato sul perché di queste differenze di genere, formulando una serie di teorie, legate soprattutto a fattori ormonali e metabolici, in considerazione dei continui cambiamenti in tal senso vissuti da una donna nel corso della propria vita e dalle indicazioni notate empiricamente su un possibile nesso tra disordini metabolici e sviluppo di malattie autoimmuni.
Un diverso approccio, quello genetico, per tentare di dare una risposta al quesito è stato ora tentato da un gruppo di ricercatori statunitensi, che hanno pubblicato su “Cell” i risultati di uno studio da cui è emerso che un rivestimento molecolare tipico del cromosoma “X” (quello “doppio” nelle donne, che sono invece prive del maschile “Y”) potrebbe essere uno dei motivi alla base di questa predisposizione del genere femminile.
Il meccanismo genetico e le malattie autoimmuni
Come spiega un articolo di commento della rivista “Nature”, il rivestimento, composto da un mix di rna e proteine e normalmente espresso solo dalle cellule XX, attirerebbe i cosiddetti “anticorpi canaglia”, potendo in tal modo provocare risposte immunitarie indesiderate. È infatti coinvolto nel processo di sviluppo chiamato “inattivazione del cromosoma”, in cui lunghi filamenti di rna (chiamati Xist) si avvolgono intorno al cromosoma, attirando dozzine di proteine per imbavagliare i geni al suo interno.
In questo meccanismo, vi sono però geni, in grado di sfuggire all’inattivazione, che attivano campanelli d’allarme immunologici alla base di condizioni autoimmuni. Già da una decina d’anni è stato notato che molte delle proteine coinvolte nel meccanismo sono bersagli di molecole immunitarie sbagliate, chiamate autoanticorpi, che possono attaccare tessuti e organi, provocando danni e infiammazioni croniche. E la stessa molecola Xist, è stato scoperto nel 2023, può attivare risposte immunitarie infiammatorie.
I test sui topi e le prospettive
L’esperimento condotto dal team di ricercatori si è basato sull’induzione di una malattia simile al lupus in topi maschi di laboratorio bioingegnerizzati per produrre Xist.
Si è scoperto così che gli animali che esprimevano la molecola avevano anticorpi più elevati rispetto ai topi normali, ma anche che mostravano danni più estesi ai tessuti e avevano cellule immunitarie in allerta e quindi predisposte ad attacchi autoimmuni.
La presenza degli stessi autoanticorpi in campioni di sangue di persone affette da lupus, sclerodermia e dermatomiosite è, secondo gli studiosi, la prova che Xist e le relative proteine associate sono “qualcosa che il nostro sistema immunitario ha difficoltà a ignorare. Quella che è stata definita una “nuova svolta meccanicistica” potrebbe dunque indicare nuove opportunità diagnostiche e terapeutiche nella gestione della malattia, come una diagnostica mirata contro questi autoanticorpi per abbreviarne i tempi.
Cura delle malattie autoimmuni: lo stato della ricerca
Parallelamente alla ricerca delle cause, gli scienziati stanno intanto portando avanti gli studi sulle possibili risposte terapeutiche alle malattie autoimmuni.
E la prospettiva di trovare finalmente una cura per ripristinare la tolleranza immunitaria in pazienti affetti per esempio da diabete, lupus e sclerosi multipla sembra ora meno lontana. Lo sottolinea un altro articolo pubblicato sempre da Nature, a fine gennaio, per fare il punto sulle strade che si stanno percorrendo in tal senso.
I vari studi sono a diversi livelli di avanzamento, così come diversi sono le sostanze utilizzate e i target a cui mirare. L’immunologo Pere Santamaria, all’Università canadese di Calgary, da oltre 20 anni punta per esempio sulle nanoparticelle di ossido di ferro, chiamate “navacim”, per calmare o uccidere le cellule responsabili del diabete.
Una terapia che sarebbe pronta per essere testata sull’uomo già quest’anno, partendo da una malattia autoimmune che colpisce il fegato.
Il ripristino della tolleranza
Le terapie per malattie autoimmuni come diabete di tipo 1, lupus e sclerosi multipla non mancano di terapie, ma molte di queste hanno l’effetto collaterale di sopprimere l’intera risposta immunitaria, esponendo così al rischio di infezioni e tumori. Un approccio tentato da decenni è quindi quello di ripristinare la capacità del sistema immunitario di distinguere tra antigeni appartenenti al corpo o meno: la cosiddetta “tolleranza”, che si interrompe, a livello centrale e periferico, con le malattie autoimmuni.
Per ripristinare la tolleranza, una strada è quella della somministrazione in grandi quantità dell’antigene problematico, anche se va detto che la scelta in tal senso è complicata, anche perché in diverse malattie sono coinvolti più antigeni. Un altro approccio che sta dando risultati incoraggianti punta su cellule immunitarie ingegnerizzate, progettate per colpire ed eliminare selettivamente le cellule problematiche.
Tra fegato e linfociti
Altri ricercatori si stanno invece concentrando sul fegato, come sede verso cui indirizzare le molecole, tra cui gli antigeni come le proteine della mielina, che attivano il sistema immunitario nella sclerosi multipla. Sui possibili approcci, vi è poi il tema dei linfociti, che formano cellule “T” (in grado di riconoscere cellule estranee o malate) e “B” (che producono anticorpi e supportano il sistema immunitario).
Sul primo fronte, si prevede una terapia, ritenuta dagli sviluppatori meno rischiosa rispetto alla somministrazione di antigeni, che potrebbe essere somministrata per la prima volta a un malato di artrite reumatoide già in questi mesi. Diversamente dal ripristino della tolleranza, chi vede le cellule B come bersaglio più promettente, per esempio in un approccio tentato in Germania con primi risultati sorprendenti, punta sull’eliminazione delle cellule immunitarie che contribuiscono alla malattia, provando così a ripristinare il sistema immunitario.
Alberto Minazzi