4 novembre 1966, 50 anni dopo:
il ricordo della tragedia “oltre” Piazza San Marco
Venezia. La Laguna che cresce fino a diventare un gigante di un metro e novantaquattro in grado di sommergere la città. Il 4 novembre del 1966, però, non fu solo l’”Aqua granda”. Le piogge eccezionali di quell’autunno di cinque anni fa fecero esondare i fiumi, salire l’Adriatico, tracimare i piccoli corsi d’acqua: da est a ovest, le campagne di tutta l’area metropolitana si trasformarono in un’enorme palude. Brenta e Piave si gonfiarono fino a esplodere, superando gli argini e mettendo in ginocchio Veneto Orientale e Riviera: Musile, San Donà, Vigonovo, Campagna Lupia.
Il litorale venne travolto dal mare. Jesolo, per esempio, dalla zona delle dighe al centro città, dove l’acqua arrivava al livello dei palazzi. L’Adriatico si fece sentire anche a Caorle, in valle Altanea, travolgendo reti e zone di pesca. E poi Mestre, in particolare nell’area della Gazzera e di Chirignago, dove non bastavano gli stivali per fronteggiare il livello delle acque.
Se lo ricorda bene l’ex direttore del consorzio Dese Sile, Giuliano Vaona. Nel ’66 era un geometra di 26 anni, assunto da pochi mesi. L’alluvione fu il suo battesimo del fuoco. «Fu un fenomeno particolarissimo – racconta – pioveva da molti giorni, il territorio era zuppo e la maggior pericolosità era determinata dagli argini intrisi d’acqua che non permettevano nemmeno di avvicinarsi con i sacchi, come si fa ora. Camminare sugli argini significava rischiare di farli crollare».
Il legame della terraferma con Venezia, quando si parla di acque, è simbiotico. «La situazione si aggravò perché con l’Aqua granda, tutti i corsi d’acqua che sfociavano in Laguna non scaricavano più, quindi tracimarono. Le situazioni peggiori erano quelle della Cipressina, nella zona di Gazzera e Chirignago. Per le altre zone a sollevamento meccanico la zona a nord dell’aeroporto era sotto acqua perché verso il 4 novembre venne a mancare l’energia idrovora, quindi funzionavano solo le vecchie pompe a diesel. Riesco a ricordare bene ancora il loro rumore nel silenzio della notte»
E poi ci fu il Marzenego che sommerse Noale e Moniego, il Dese che tracimò a Marocco e superò il Terraglio. E il Piave «In quel caso la quantità d’acqua che arrivava da Monte dal Cadore era superiore alla portata effettiva del fiume, fu una tragedia». Eppure, che ci fosse un problema a livello idrogeologico si era già intuito cinque anni prima, con il piano di bonifica del consorzio del 1961. Il dato che era emerso dagli studi degli ingegneri Aldo Rinaldo (Dese Sile), Giuseppe Ceron (Dese Superiore) e Giandomenico Ferri Cataldi (Comune di Venezia) era che la portata di monte era superiore a quaranta metri cubi al secondo. Troppi, in caso di piena. «Dopo l’alluvione venne concepito lo scolmatore di Mestre deviando i quattro canali Cimetto, Dosa, Ruviego e Rio Storto. Il corso d’acqua in cemento permetteva all’acqua di correre molto più velocemente. Il problema rimaneva alla foce: l’impianto idrovoro dello scolmatore non ha una capacità di sollevamento all’altezza. Questo significa che se oggi dovesse ripetersi un fenomeno meteorologico di tale entità, l’alluvione si ripeterebbe. Anche perché la portata doveva essere di quaranta metri cubi cinquant’anni fa, quando il territorio non era stato impermeabilizzato dalle cementificazioni di questi ultimi decenni. Oggi dubito che sarebbe sufficiente». Argomento, questo, posto come oggetto di una tre giorni di convegni a ottobre allo Iuav di Venezia: il tema, chiaramente, è com’era il territorio nel 1966 e cosa è stato fatto concretamente per cambiarlo.
Ettari sommersi nel 1966
57.000 nel Veneziano (+13.000 a Venezia)
32.000 nel Trevigiano
21.000 nel Padovano
7.000 nel Vicentino
7.000 nel Rodigino
Il rischio idrogeologico preoccupa soprattutto il Veneto orientale, dove cinquant’anni fa l’esondazione del Piave portò a un disastro senza precedenti. «Da allora – accusa il sindaco di San Donà, Andrea Cereser – non è stato fatto nulla. Semmai, a distanza di mezzo secolo la situazione è peggiorata, con una urbanizzazione incomparabilmente maggiore lungo le rive del fiume. Ed è urgente porre rimedio. Servono sia interventi straordinari, come bacini di laminazione a monte, sia di manutenzione ordinaria, a partire dalla pulizia del corso del fiume a valle. La stessa morfologia del basso corso del Piave, con oltre la metà del territorio sandonatese al di sotto del livello del mare, e la conseguente difficoltà del deflusso delle acque, impone di non rilassarsi su questo tema. Il cinquantesimo anniversario di quel 4 novembre 1966 deve poter essere celebrato con qualcosa di più concreto di quanto non fatto in questi decenni».
Per il primo cittadino bisogna prevenire, ma anche essere in grado di intervenire con la massima prontezza. «Per fronteggiare un altro evento catastrofico del genere, oltre a interventi strutturali, è necessario potenziare la Protezione Civile. Tra le ipotesi più interessanti formulate dagli esperti, quella di una sede distrettuale che lavori per tutto il Basso Piave, ovvero in coincidenza con la parte arginata dell’asta del fiume, quindi a rischio alluvioni»