Una ricerca inglese individua un’area cerebrale fondamentale per le motivazioni prosociali
Perché siamo altruisti?
Non tutti lo sono in realtà e tra chi lo è, ognuno lo è in modo diverso.
A determinare il nostro grado di altruismo sembrano essere cause di diversa natura: biologica, per esempio, perché, spiegano gli esperti, aiutare il proprio gruppo può aumentare la possibilità di sopravvivenza dei nostri geni; neurologica, perché compiere un gesto di altruismo attiva i centri della ricompensa, determinando una condizione di piacere; anche cognitiva, perché aiutare chi è in difficoltà rafforza l’autostima.
Sull’altruismo, però, ora si sa qualcosa in più.
I risultati di una ricerca svolta da un team delle Università inglesi di Birmingham e Oxford, pubblicati sulla rivista “Nature Human Behaviour”, aggiungono infatti una causa di natura squisitamente fisica: l’altruismo dipende da una ben specifica area del nostro cervello.
Il cervello e l’area dell’altruismo
La casa dell’altruismo è la “corteccia prefrontale ventromediale” (vmPFC).
Una parte del cervello ritenuta “vitale per il processo decisionale”, in quanto si collega all’elaborazione delle ricompense e dello sforzo.
Il coinvolgimento di questa corteccia cerebrale nei comportamenti è emerso dall’analisi delle scelte effettuate da 25 pazienti con rare lesioni focali nell’area, confrontate con quelle di 15 soggetti con altre lesioni cerebrali e 40 sani.
Concludendo che “ il danno vmPFC ha ridotto la prosocialità attraverso misure comportamentali e computazionali”.
Ai partecipanti all’esperimento è stato chiesto di svolgere compiti ritenuti in grado di misurare quanto ognuno fosse disposto a sostenere uno sforzo fisico in cambio di una ricompensa per sé o per altri. E ogni scelta fatta è risultata variare a seconda dell’entità del premio disponibile e della fatica necessaria per raggiungere la ricompensa.
È risultato che, nella scelta tra riposo e sforzo, i pazienti con lesioni a livello di vmPFC “guadagnavano meno, scontavano maggiormente le ricompense dovute allo sforzo ed esercitavano meno forza quando un’altra persona ne traeva beneficio, rispetto a entrambi i gruppi di controllo”.
Inoltre, mappando le lesioni, sono emerse dissociazioni tra sottoregioni dell’area, che “rivelano i molteplici contributi causali di vmPFC al comportamento prosociale, allo sforzo e alla ricompensa”. Mentre il danno mediale portava a un comportamento antisociale, il danno laterale ha infatti paradossalmente aumentato il comportamento prosociale.
Il senso della ricerca
“Ogni giorno – sottolinea lo studio – facciamo delle scelte tra impegno e ricompensa, per esempio se andare in palestra o restare a casa, oppure tra aiutare un collega e guardare la tv. Lo sforzo è avversivo. Se due linee di azione sono associate a diversi livelli di impegno ma alla stessa ricompensa, le persone sceglieranno l’opzione meno impegnativa”.
“La mancanza di volontà di impegnarsi – prosegue l’articolo scientifico – ha importanti implicazioni sul comportamento quotidiano e caratterizza l’apatia, una condizione clinica di ridotta motivazione che è comune a molteplici disturbi psichiatrici e neurologici”.
“Sebbene molte delle nostre scelte siano fatte per avvantaggiare noi stessi , spesso decidiamo anche se impegnarci per fornire benefici ad altre persone”.
Comportamenti “prosociali” ritenuti “cruciali per il successo umano, poiché ci consentono di cooperare e affrontare le sfide globali e apportano importanti benefici per l’individuo, la società e il destinatario”.
“I cosiddetti comportamenti prosociali – spiega Patricia Lockwood, autrice principale del lavoro – sono essenziali. Eppure aiutare gli altri è spesso faticoso e gli esseri umani sono contrari allo sforzo”. Di qui l’idea di provare a “comprendere i meccanismi neurali di come i costi, come lo sforzo, e i benefici, come le ricompense, vengono integrati nel comportamento guidato dai valori”.
Le prospettive della scoperta
Già precedenti studi avevano dimostrato una minore disponibilità dei giovani adulti a impegnarsi per aiutare gli altri, in particolare quando i costi dello sforzo sono elevati, e la minor forza messa negli atti prosociali, rispetto a quanto fatto dagli anziani. E altri lavori avevano collegato queste differenze legate all’età alla maturazione della vmPFC.
I risultati ottenuti adesso, secondo gli autori, potranno dunque sia aiutare a capire come riuscire a motivare le persone a spendersi per vincere le principali sfide comuni dei nostri giorni, sia per provare a dare un contributo alla definizione di nuovi approcci e trattamenti contro i disturbi clinici, come la psicopatia, che condizionano le interazioni sociali.
La corteccia vmPFC è infatti ritenuta, aggiunge Lockwood, particolarmente interessante, in quanto “sappiamo che subisce uno sviluppo tardivo negli adolescenti e cambia quando invecchiamo. Sarà davvero interessante vedere se quest’area del cervello può anche essere influenzata dall’istruzione”.
In altri termini, è possibile educare a essere migliori e più altruisti?
Alberto Minazzi