La prima diretta tv non stop dei tentativi di salvataggio del bambino fu seguita da 28 milioni di italiani. L’importanza del dramma per la nascita della Protezione civile
Erano le 7.20 di sabato 13 giugno 1981 e la dichiarazione delle autorità spense la speranza dell’Italia intera: Alfredo Rampi, il bambino di 6 anni precipitato tre giorni prima in un pozzo artesiano a Vermicino, nella campagna romana, era ufficialmente morto.
L’esito temuto per una vicenda che tenne sospeso il fiato di un intero Paese, con 28 milioni di persone incollate agli schermi per la prima diretta-fiume della televisione italiana, che raccontò nelle ultime 18 ore i disperati tentativi di salvataggio di Alfredino.
Sono passati esattamente 43 anni da quella data. E la tragedia ha lasciato se non altro un’importante eredità, all’Italia.
Perché, verificatasi a pochi mesi di distanza dal terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980, diede un ulteriore decisivo impulso alla formazione di una struttura di coordinamento dei soccorsi, allora mancante nel sistema italiano e, dopo la nomina nel 1982 del primo ministro della Protezione civile e la seguente istituzione dell’apposito dipartimento, da 34 anni è stata tradotta nel fondamentale Servizio nazionale della Protezione civile.
Perché proprio la mancanza di un’adeguata organizzazione dei soccorsi, che pure si tradussero in molteplici tentativi di salvataggio del bambino, fu una delle cause di una disgrazia che, a quasi mezzo secolo di distanza, è ancor oggi impossibile dimenticare per chi la visse, in prima persona o anche solo attraverso le immagini video.
Alfredino, che in quei giorni era in vacanza con la famiglia in attesa di essere operato dopo l’estate per una cardiopatia congenita, fu infatti idealmente adottato da tutto il Paese, a partire dall’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che si recò di persona al pozzo.
La scomparsa di Alfredino e la scoperta del vecchio pozzo
Il piccolo Rampi non aveva dato più notizie di sé dalla serata del 10 giugno, quando aveva lasciato il papà Fernando per rientrare da solo a casa dopo una passeggiata tra quei campi in cui fu poi identificato il pozzo artesiano profondo 80 metri da cui proveniva, sia pur flebile, la voce di Alfredino.
Le prime stime localizzarono il bambino a 36 metri di profondità, dando il via a una serie di tentativi di salvataggio: calando una tavoletta di legno (che però si incastrò a soli 24 metri), tentando di far calare gli speleologi del soccorso alpino (che non riuscirono nemmeno a raggiungere la tavoletta), provando a scavare nel duro terreno circostante un cunicolo parallelo.
Andati vani tutti i tentativi esperiti l’11 giugno, il secondo scavo raggiunge una trentina di metri di profondità il giorno successivo, quando viene corretta a 32 metri la stima della posizione del bambino, a cui viene somministrata acqua e zucchero con una flebo, ma che comincia a parlare e respirare sempre meno.
Il volontario Calato a testa in giù e le vane speranze
Quando, verso le 19, viene completato il collegamento tra i due pozzi, si scopre che, purtroppo, Alfredino era ne frattempo scivolato ancora più in profondità. Si provano allora gli ultimi disperati tentativi di raggiungerlo.
Il più vicino a riuscirci è il volontario sardo Angelo Licheri, facchino in una tipografia, che, calato a testa in giù, riesce a toccare il piccolo Rampi, a circa 60 metri nel sottosuolo. Ma i tre tentativi di imbracatura nell’arco di 45 minuti (un tempo record, se si considera che il massimo ritenuto possibile è di 25′) non riescono, Licheri perde il contatto con le dita di Alfredino, che scivola ancora più giù, ed è costretto a risalire in superficie da solo, né riesce l’ultimo tentativo da parte di uno speleologo.
Il corpo senza vita di Alfredo Rampi sarà quindi recuperato solo 28 giorni più tardi.