La minigonna, il simbolo dell’emancipazione femminile, compie 60 anni. E fa ancora tendenza
“Nella storia del costume e nella storia delle donne la minigonna rappresenta sicuramente un intoppo, un intralcio, una rottura, in una logica dell’abito femminile che prescrive per tradizione che questo abbia innanzi tutto la funzione “morale” di coprire, cancellare, nascondere il corpo”.
Non una delle più famose frasi riguardanti la moda, ma di sicuro una delle più esemplificative e sicuramente calzante, quella di Patrizia Celefato, docente di sociologia all’università di Bari e autrice del libro Mass moda, per celebrare la Giornata Mondiale della minigonna, che cade annualmente ogni 6 giugno.
La minigonna ha infatti segnato, in una manciata di centimetri in meno, la storia della Donna e della sua rivoluzione, ancora in divenire.
La differenza tra un ginocchio coperto o meno, tra la libertà di espressione attraverso l’apparire e la sua chiusura, a tratti censura.
La storia della minigonna come semplice indumento ha origine probabilmente nella notte dei tempi, già tra gli antichi egizi, per trasformarsi poi in simbolo di emancipazione femminile e di vero e proprio “amuleto” rivoluzionario.
Madri e padri della minigonna
L’idea di accorciare le gonne come gesto di opposizione alla società patriarcale inizia a farsi strada già alla fine dell’Ottocento con i movimenti femministi francesi; a seguire, furono le donne operaie, impegnate nelle fabbriche al posto degli uomini al fronte della Grande guerra, a muoversi tra il pantalone maschile e i vestiti più corti.
La rivoluzione si prepara attraverso le icone tra gli anni Trenta e Cinquanta: Coco Chanel individua nel capo e nel taglio dei capelli i parametri di cambiamento femminile, mentre in ambito sportivo le atlete iniziano ad adottare la gonnellina, per aver maggior libertà di movimento. Le pin-up e le sex symbol dell’epoca – come Marylin Monroe e Ava Gardner – posano per i loro scatti in abiti corti.
Ma è il 1963 l’anno in cui generalmente si identifica la nascita della “mini” – termine preso in prestito dalla popolare casa automobilistica inglese – per mano della stilista Mary Quant, che iniziò a rispondere alle richieste di accorciare le gonne da parte delle sue clienti.
Una nascita, più concettuale che effettiva, “proveniente dalla strada”: questo almeno sostenne la stessa Quant in riferimento alla disputa con André Courrèges, stilista francese al quale viene attribuita la paternità della minigonna, almeno in patria. Mary Quant sottolineò come il movimento fosse sociale e popolare (tant’è che anche negli USA la costumista Helen Rose viene riconosciuta come madre del capo), fermo restando che l’indumento era già conosciuto.
Erano quindi le ragazze di King’s road, nella strada londinese dove la stilista britannica aveva il suo negozio “Bazaar”, a chiedere le gonne sempre più corte: dai 5,1 centimetri iniziali sopra il ginocchio fino ai quasi 20. Poi venne la diffusione internazionale, tanto che nel 1966 Mary Quant ricevette il titolo di “Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico”, mentre nel frattempo iniziavano a muovere le rivoluzioni sociali degli anni Sessanta e Settanta.
La “mini” fino ai giorni nostri
Nonostante le previsioni di scomparsa, la minigonna continua a esistere nella moda e nella quotidianità, con i consueti alti e bassi di ogni altro capo d’abbigliamento.
Il trend continua ancora oggi, tra l’uso di leggins, collant e l’accorciamento oltre i 20 centimetri, tanto da portare gli anglofoni a rinominare l’indumento “microgonne”, “zerogonne” o belt-skirt (letteralmente cintura-gonna).
Talvolta la minigonna è stata oggetto di dibattiti e regolamentazioni vere e proprie, in nome della decenza e della morale pubblica (in Italia, per esempio, nel comune di Terni, nel 2021).
Giunti nel Terzo millennio, c’è da chiedersi se potrà mai esistere un altro indumento che, come la minigonna, possa diventare un nuovo simbolo di emancipazione.
Senza però doversi spingere tanto oltre, sarebbe già più che sufficiente se, in un inaspettato progresso culturale, si realizzassero le parole della scrittrice francese Leila Slimani: “Spero che un giorno mia figlia camminerà per strada di notte, in minigonna e in décolleté, che farà il giro del mondo da sola, che prenderà la metro a mezzanotte senza avere paura, senza nemmeno pensare di poterla avere. Il mondo in cui vivrà allora non sarà un mondo puritano. Sarà, ne sono sicura, un mondo più giusto, dove lo spazio dell’amore, del godimento, dei giochi della seduzione potrà solo essere più bello e più ampio”. Un risultato al di là di ogni vestito e al di qua di ogni equa libertà umana.
Damiano Martin