Anche grazie ai fondi del Pnrr, iniziato nelle aziende il percorso per l’eliminazione del gender gap uomo-donna. Biagioni (Agi): “Percorso necessario e complesso che darà benefici anche alle aziende”
Le statistiche sono in continuo aggiornamento, ma testimoniano una crescita costante dell’attenzione delle aziende italiane all’annullamento delle differenze tra lavoratori e lavoratrici.
Accredia, l’ente nazionale di accreditamento designato dal Governo italiano per il rilascio delle nuove certificazioni di parità, in occasione dell’ultima festa dell’8 marzo ha reso noto che, al 30 novembre 2022, erano 68 le aziende certificate per un totale di 323 siti produttivi. Altri 900 la otterranno a breve.
“Le società certificate crescono esponenzialmente come dicono gli stessi dati di Accredia – fa il punto Tatiana Biagioni, presidente degli Avvocati giuslavoristi italiani dell’Agi – e anche diversi studi legali o di professionisti, che hanno dipendenti, hanno ottenuto la certificazione, o la stanno chiedendo”.
Vi sono inoltre, sottolinea Biagioni, altre aziende, di piccole e medie dimensioni, che aspettano il bando legato ai 10 milioni di risorse messi a disposizione a tal fine dal Pnrr. In tal modo, il processo di rilascio della certificazione non comporterà costi per le imprese.
La certificazione di parità: una svolta contro il gender gap
Il tentativo di intervenire concretamente su un piano in cui l’Italia risulta particolarmente indietro, quello delle differenze di trattamento sul posto di lavoro legate al sesso, si lega alle novità introdotte a marzo 2022, con l’avvio della certificazione di parità “UNI PdR 125:2022”.
“È stato – commenta la presidente di Agi – l’avvio di una fase culturale diversa, un vero e proprio cambio di passo sul piano normativo, che parte da aziende pubbliche e private ma avrà anche un effetto a catena in tutto il mondo del lavoro, anche autonomo. Questa norma cambia completamente il punto di vista, gettando le basi per compiere quel salto di qualità che era necessario all’interno del precedente schema e andando oltre la difesa delle lavoratrici”.
Il nuovo paradigma, dunque, si basa principalmente su due pilastri: “Il primo – riprende l’avvocata – è la trasparenza, perché l’articolo 46 impone alle aziende di guardarsi dentro. Il secondo, promuovendo la certificazione nell’articolo 46 bis, avvia un percorso, non statico, per cambiare il modello organizzativo, partendo dall’interno del sistema per individuare quali siano le difficoltà che portano alla disparità”.
Le differenze di genere nel lavoro
Per evidenziare come la situazione italiana necessitasse di compiere questo ulteriore passo, Tatiana Biagioni cita innanzitutto alcune cifre.
La prima è quella sul mero dato numerico degli occupati, con una differenza del 18% tra maschi e femmine.
“Un dato enorme – commenta – e molto grave. Perché un mondo del lavoro con queste disparità è decisamente difficile da affrontare”.
Vi è poi la “piaga oggettiva” legata alle retribuzioni.
“Non è facile – premette la presidente Agi – quantificare le differenze, ma si va mediamente verso il 15%. E non parliamo solo del lavoro dipendente, ma anche delle professioni. Le avvocate, per esempio, guadagnano in genere meno della metà dei colleghi, aprendo anche a problematiche future, visto che, con sempre più laureate, si va verso un’avvocatura sempre più povera, con in più il tema della sostenibilità previdenziale”.
E non finisce certamente qui: dal tema della struttura piramidale delle aziende e in molti casi dei grandi studi professionali, che vedono una netta prevalenza di uomini nelle posizioni apicali, alle molestie sessuali, che non risparmiano per esempio nemmeno le sportive.
“I più recenti dati ufficiali – considera Biagioni – sono quelli del 2018, con 1.404.000 donne molestate. Da allora, però, sicuramente, a mio avviso, non sono diminuite. E, per di più, le denunce sono molto poche, perché le lavoratrici non si sentono ancora adeguatamente protette”.
Il cambio del dna del modello organizzativo
Tatiana Biagioni è però convinta che “un cambio del dna del modello organizzativo può portare a un cambiamento di questi dati anche in tempi non lunghi”.
Quel che serve, aggiunge, è un’analisi della situazione da diversi punti di vista. Il primo è culturale e comprende vari aspetti, dal linguaggio alle modalità di espressione del disagio quando questo si dovesse presentare.
Il secondo è quello della “governance”, della progressione delle carriere, il differenziale retributivo, la gestione da parte delle imprese di maternità e paternità, “che finalmente iniziano a essere viste nel loro ruolo sociale fondamentale tanto più in una società che invecchia”, dice l’avvocata. “Il passaggio culturale fondamentale che stiamo vivendo in Italia deve vedere diventare centrali trasparenza e premialità”.
Non a caso, oltre agli sgravi contributivi che le si collegano, la certificazione di parità è entrata ora anche all’interno della riforma del Codice dei contratti pubblici, assegnando punteggi migliori nella gare di appalto.
“Di fronte a questo cambiamento – conclude Biagioni – chi si certifica acquista non solo un valore per la reputazione dell’azienda, ma anche un valore assoluto nelle politiche di inclusione”.
Cerifiicazione di parità: come funziona e cosa ne deriva
Il processo che porta al rilascio della certificazione di parità è articolato. In primo luogo, si parte da un’analisi dei cosiddetti “kpi” (key performance indicator”) all’interno dell’azienda. In sostanza, illustra l’avvocato, si tratta di una serie di indicatori per verificare se l’azienda ha veramente attenzione a queste tematiche. “Dall’analisi delle prassi organizzative – spiega – si arriva a capire cosa può essere implementato in tema culturale, di politiche attive e di governance”.
Da qui parte il percorso vero e proprio. E se l’azienda raggiunge un punteggio di almeno 60/100, la società accreditata rilascia la certificazione, che attesta come sia stato intrapreso un percorso non fine a se stesso, ma che testimonia un reale inizio di cambiamento da implementare nel tempo, tant’è che è prevista una prima analisi a 2 anni di distanza e altre successive.
“Il modello organizzativo – approfondisce Biagioni – deve tener conto di queste tematiche in tutti gli aspetti: dalla formazione ai meccanismi di conciliazione tra lavoro e famiglia, dal lessico alle possibilità di progressione interna del lavoratore e della lavoratrice. Si innesca così un meccanismo virtuoso, che non solo rende più etica l’azienda, ma può tradursi anche in un miglioramento della produttività, liberando l’organizzazione aziendale dagli stereotipi”.
Alberto Minazzi