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Covid: la variante Bythos è arrivata in Italia

Covid: la variante Bythos è arrivata in Italia

Riemergono intanto dallo scioglimento del permafrost in Siberia 13 virus di migliaia di anni fa ancora in grado di infettare

Anche se è venuta meno la fase emergenziale, il monitoraggio delle evoluzioni del Sars-CoV-2 non si ferma. La più recente variante XBF, ribattezzata Bythos, sequenziata lo scorso luglio in Australia, è stata adesso segnalata ufficialmente anche in Italia, dove, peraltro, continuano a calare i ricoveri, sia nei reparti ordinari che in terapia intensiva.

Covid: Bythos in Italia, cosa c’è da sapere

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha aggiunto questa “sorella” ricombinante di Omicron alla lista delle varianti sotto osservazione da circa un mese, visto che contiene mutazioni che, come mostrano alcuni dati australiani, consentirebbero al virus di sfuggire più facilmente alla risposta immunitaria, oltre a dargli potenziale maggior trasmissibilità.

La sua diffusione è stata riscontrata in 46 Paesi, anche se al momento supera di poco l’1% dei casi totali sequenziati. Tra i Paesi in cui la diffusione di Bythos è maggiore, oltre all’Australia, c’è anche la Svezia. “Al momento – sottolinea comunque l’Oms – non ci sono prove epidemiologiche che la sotto-variante XBF porti a un aumento dei casi, dei ricoveri o dei decessi”.

La minaccia dei virus zombie

Dopo la pandemia da Covid, del resto, l’attenzione verso il rischio-virus è massima. Un esempio? Il “Pandoravirus yedoma”, che risale addirittura a 48.500 anni fa. Ma quel che sorprende ancor di più è che gli scienziati hanno confermato che è ancora “vivo”. Il “virus zombie” è stato trovato in un campione di ghiaccio del permafrost siberiano antico, proveniente da 16 metri sotto il lago di Yukechi Alas, tra i 7 prelevati nel fiume Lena e nel criosolo della Kamchatka. Il campione è stato isolato e caratterizzato insieme a altri 13 virus, dei quali il più “giovane” ha 27 mila anni.

In laboratorio, i ricercatori di un team coordinato da Jean-Michel Claverie dell’Università di Marsiglia hanno dimostrato, attraverso l’utilizzo di colture cellulari, che il virus ha mantenuto le sue caratteristiche infettive. Non è una novità, visto che esperimenti analoghi erano stati effettuati nel 2014 sul “pithovirus” e nel 2015 sul “mollivirus”. Ma il risultato descritto ora in un articolo pubblicato sulla rivista “Virus” è stato ottenuto su un virus mai così antico.

Dal permafrost virus pericolosi anche per l’uomo?

Per sicurezza, si sono scelti virus non in grado di colpire animali o esseri umani, ma soltanto organismi monocellulari. Però, ammoniscono gli studiosi fin dal preprint pubblicato a novembre sul sito bioRxiv, è sbagliato pensare che tali eventi siano rari e che i “virus zombi” non rappresentino una minaccia per la salute pubblica. “Il nostro ragionamento – spiega Claverie – è che se i virus dell’ameba sono ancora vivi, non c’è motivo per cui non lo siano anche altri”.

È anche per questo che la scienziata del clima del California Institute of Technology della Nasa Kimberly Miner, ha manifestato preoccupazione per lo scioglimento del permafrost, terreno permanentemente ghiacciato che copre un quarto dell’emisfero settentrionale. All’interno dei ghiacci potrebbero infatti trovarsi anche altri virus potenzialmente ancora in grado di infettare i propri ospiti, per quanto non ci siano ancora certezze riguardo alla loro resistenza nel tempo.

Il permafrost sta rilasciando materia organica vecchia fino a un milione di anni. E tracce di materiale genomico virale sono già state trovate in resti umani riemersi dal suo scioglimento. Nel 1997, il polmone del corpo di una donna riemerso nella penisola di Seward, in Alaska, ne conteneva di quello del ceppo influenzale responsabile della pandemia del 1918. E nei resti di un’altra donna, morta da 300 anni, trovata nel 2012 in Siberia, c’erano tracce del virus del vaiolo.

Alberto Minazzi

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