Uno studio evidenzia i meccanismi di archiviazione degli episodi negativi, aprendo la strada alla cura dello stress post-traumatico
Il succedersi degli eventi negativi negli ultimi anni ha generato una “società della paura”, in cui si diffondono sempre più tra la popolazione i più svariati timori, in particolare quelli di natura sanitaria ed economica.
Una tendenza confermata ed evidenziata da numerosi studi e rapporti: da quello di Eurispes al più recente del Censis .
La paura, del resto, è un sentimento innato nella natura umana. E su meccanismi naturali si basa. Meccanismi che la scienza sta provando a conoscere sempre più. Anche perché potrebbero derivarne utili implicazioni pratiche.
Un esempio recentissimo arriva dagli Stati Uniti, dove l’Università della California di Riverside ha appena reso noti i risultati di uno studio sull’archiviazione dei ricordi di eventi negativi nel cervello, che potrebbe permettere di individuare nuove terapie contro le paure croniche derivanti da uno stress post-traumatico.
Dall’archivio delle paure alle possibili cure per il cervello
Individuare dove, all’interno del nostro cervello, vengono archiviate le reazioni a situazioni traumatiche che abbiamo vissuto apre infatti potenzialmente la strada a interventi esterni per indebolire selettivamente questi specifici circuiti della memoria.
“Il recupero della memoria della paura contestuale remota – si legge nello studio – può essere soppresso inibendo un insieme di neuroni anche dopo che la memoria contestuale si è consolidata nei circuiti neocorticali”. “Il silenziamento dei neuroni reclutati durante il richiamo della memoria remoto ma non recente – si aggiunge – ha inibito il successivo recupero della memoria” dei ricordi negativi.
È uno dei futuri obiettivi che si è posto il team di ricercatori guidato da Jun-Hyeong Cho, che, dopo una serie di test effettuati sui topi, è riuscito a identificare nella corteccia prefrontale la sede di quello che è il vero e proprio “archivio delle paure” al quale attinge il cervello per mettere in atto le reazioni in contesti potenzialmente negativi.
Il titolo dell’articolo, pubblicato dalla rivista Nature Neuroscience, è estremamente tecnico (“Engrammi sinaptici neocorticali per ricordi contestuali remoti”), ma si rifà a un ben preciso concetto, quello di “engramma”. Ovvero quell’ipotetico elemento neurobiologico che consentirebbe alla memoria di ricordare fatti e sensazioni immagazzinandoli come variazioni biofisiche o biochimiche.
Ippocampo e corteccia cerebrale
Il meccanismo alla base dei ricordi, va sottolineato, è differente tra quelli recenti e quelli remoti.
L’acquisizione dipende infatti dai circuiti dell’ippocampo, mentre già studi precedenti avevano suggerito che i neuroni della corteccia prefrontale mediale e nella corteccia cingolata anteriore svolgono un ruolo fondamentale nel consolidamento di ricordi contestuali remoti ma non recenti.“Questi neuroni – spiegano i ricercatori – vengono generati rapidamente durante l’apprendimento, maturano gradualmente con il tempo e vengono riattivati durante il richiamo della memoria remota”. Lo studio appena pubblicato ha quindi spiegato come questi neuroni-engramma contribuiscono al consolidamento della memoria remota.
Il concetto-base, in questo caso, è quello di “sinapsi”.
“Il consolidamento della memoria remota – prosegue lo studio – comporta un rafforzamento progressivo e specifico delle connessioni eccitatorie tra i neuroni-engramma”.
Dipendendo meno dall’attività dell’ippocampo, insomma, “dopo il consolidamento dei sistemi, il recupero di ricordi contestuali remoti richiede attività neocorticale”.
In altri termini, nei topi oggetto di osservazione si è evidenziata la riattivazione di questi “neuroni della memoria”, che si erano attivati in occasione dell’evento traumatico iniziale. Al contrario, fanno notare gli studiosi, “l’estinzione dei ricordi remoti ha indebolito le sinapsi”.
Alberto Minazzi