I risultati di uno studio australiano suggeriscono che gli strascichi di lungo periodo da coronavirus abbiano la stessa origine della stanchezza cronica
Long Covid ed encefalite mialgica, più conosciuta come sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS), potrebbero avere tra le cause un danno biologico comune, che comporta un cattivo assorbimento del calcio da parte dell’organismo. Il Covid potrebbe dunque essere un potenziale fattore scatenante della ME/CFS.
È molto più di una semplice classificazione scientifica, quella a cui sono arrivati i ricercatori della Griffith University di Brisbane. Potrebbe infatti derivarne una vera e propria rivoluzione nell’approccio alla malattia di lungo periodo causata dal Sars-CoV-2, individuandone finalmente una cura.
Lo studio
Il risultato, pubblicato in un paper sul Journal of Molecular Medicine, è stato raggiunto da scienziati australiani che da 10 anni si occupano di stanchezza cronica e dal 2020 hanno adattato la ricerca per includere gli impatti del Covid. Le conclusioni costituiscono un nuovo punto di partenza da cui sviluppare la ricerca mirata per trovare in tempi rapidi una terapia efficace per contrastare il long Covid.
La riflessione da cui ha mosso lo studio, ha spiegato Sonya Marshall Gradisnik, direttrice del Centro nazionale di neuroimmunologia e malattie emergenti della Griffith University, è stata la considerazione che “i pazienti con long Covid riportano manifestazioni neurocognitive, immunologiche, gastrointestinali e cardiovascolari, che sono anche sintomi di encefalite mialgica“.
Gli esperti australiani, sperimentando una tecnica specializzata nota come elettrofisiologia nelle cellule immunitarie, si sono così concentrati sull’analisi di alcune proteine. Queste, attraversando la membrana cellulare, consentono il passaggio degli ioni dentro e fuori la cellula e il controllo di numerosi processi biologici. Ed è emerso, nei pazienti affetti da entrambe le sindromi, un danneggiamento dei ricettori del calcio.
“I pazienti – riprende Marshall Gradisnik – possono manifestare sintomi diversi a seconda delle cellule del corpo interessate: dalla nebbia cerebrale e dall’affaticamento muscolare alla possibile insufficienza d’organo”. Questi sintomi si collegherebbero cioè alle diverse parti del corpo in cui questi “canali ionici”, fondamentali per un buon funzionamento dell’organismo, risultavano danneggiati. L’obiettivo, adesso, è sviluppare uno screening test ad alto rendimento per consentire diagnosi rapide.
Il long Covid
Si calcola che, su 588 milioni di casi di Covid registrati in tutto il Mondo, i pazienti che hanno poi avuto a che fare con il long Covid siano tra i 30 e 100 milioni. Le manifestazioni di questa sindrome, ancora poco conosciuta e quindi ancora senza terapie specifiche, possono presentarsi anche a distanza di mesi dall’infezione, con sintomi perduranti (tra i più comuni l’affaticamento e la mancanza di respiro) e a volte più seri di quelli verificatisi durante la malattia.
Al riguardo, un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine ha individuato 62 sintomi che chi si è infettato con il Sars-CoV-2 ha una probabilità significativamente maggiore di registrare dopo 3 mesi dalla guarigione. La conclusione si è basata sull’analisi delle cartelle cliniche di oltre 486 mila inglesi con diagnosi di Covid confermata e quasi 2 milioni senza precedenti di Covid tra gennaio 2020 e aprile 2021.
Oltre a quelli più conosciuti, tra i sintomi fortemente associati al long Covid vi sono anche perdita di capelli, difficoltà di eiaculazione e riduzione della libido. Inoltre è emerso che ci sono alcune condizioni che si collegano a un maggior rischio di avere sintomi che durano oltre 12 settimane dalla fine della malattia. Il long Covid, cioè, tra gli altri riguarda soprattutto chi ha tra 18 e 30 anni, le donne, alcune minoranze etniche, i fumatori, gli obesi, chi ha alcune comorbilità e chi versa uno stato socioeconomico meno elevato.
Alberto Minazzi