Confermata la sentenza di primo grado.
Il termovalorizzatore di Fusina, a Venezia, ha tutte le carte in regola per svolgere la propria funzione.
Lo aveva già stabilito il Tar con una sentenza che aveva definito “inammissibile per carenza di interesse e per difetto di legittimazione” il ricorso presentato dalle associazioni ambientaliste.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, che ha respinto il loro appello confermando la sentenza di primo grado e condannando i ricorrenti alla rifusione delle spese di giudizio.
Il ricorso era stato presentato, contro la Regione Veneto, la Città Metropolitana di Venezia, il Comune di Venezia, il Ministero dell’Interno e la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio, tutte le altre istituzioni coinvolte nel processo di autorizzazione e la società Ecoprogetto Venezia s.r.l, nonostante sul termovalorizzatore veneziano si fosse già espressa anche la Commissione Europea, che aveva certificato come l’impianto agisca “con le migliori tecnologie e senza alcuna violazione delle direttive UE sulla gestione dei rifiuti”.
Il Consiglio di Stato: non dimostrata la sostenuta pericolosità dell’impianto
L’ampiamento del polo impiantistico di Fusina, che “in origine comprendeva un impianto di incenerimento di rifiuti, due linee di produzione di CSS e una linea di produzione di compost” aveva indotto le associazioni contrarie anche a voler indire un referendum popolare contro il termovalorizzatore.
Per i giudici del Consiglio di Stato, tuttavia, le ragioni addotte per bloccare la nuova linea dell’impianto di Fusina non sarebbero state dimostrate.
Così come non dimostrati sarebbero anche gli esiti, enunciati, riguardo a uno studio americano sulla relazione diretta tra l’esposizione a diossine emesse da impianti di incenerimento di rifiuti urbani e cancro alla mammella in donne che risiedevano entro 5.10 km dagli impianti.
Secondo i giudici, infatti, “non è dato comprendere dalla relazione dell’ISDE se lo studio internazionale cui si fa riferimento si riferisce a un impianto di potenza analoga e che opera alle medesime condizioni con le quali opererà quello oggetto di autorizzazione”.
Un termovalorizzatore di ultima generazione
Il Consiglio di Stato, confermando la sentenza del Tar, non solo ha rilevato che la seconda linea non varia il quadro emissivo autorizzato ma ha ribadito che, a dimostrazione delle tesi di chi non vuole il termovalorizzatore, non sono stati depositati documenti scientifici in grado di confutare quanto sostenuto dallo studio “Lod” utilizzato per il procedimento di valutazione di impatto ambientale dalla Regione Veneto, ritenuto “particolarmente rigoroso per le modalità con le quali si sono valutate le attività” e dal quale è emerso che “gli impatti emissivi significativi si producono solo entro il perimetro dell’area di Ecoprogetto o, al più, nelle immediate vicinanze e non sono, quindi, idonei a raggiungere i fondi di proprietà dei ricorrenti, posti a diversi chilometri di distanza”.
Ancora, che l’indagine epidemiologica sul rischio sarcoma alla quale è stato fatto riferimento non solo risale al 2007 ma è riferita a dati relativi agli anni 1972-1986, quando quindi a Porto Marghera ancora c’era il Petrolchimico e rilevava che già nel 2007 si registravano “livelli di inquinamento dall’atmosfera da sostanze diossino-simili significativamente scesi in seguito alla chiusura degli inceneritori di prima generazione”.
Quello di Fusina, a Venezia, è un inceneritore ma un termovalorizzatore di ultima generazione.
Non brucia rifiuti ma Css, cioè combustibile solido secondario prodotto a partire da ciò che, dal rifiuto urbano residuo non si può recuparare.
Non contiene metalli o diossine ma carta, cartone, legno, fibre e il 12% di plastiche.
Consuelo Terrin