L’idea è semplice: chiudere la “porta” attraverso la quale il coronavirus entra all’interno del corpo umano. Inventare, in altri termini, una sorta di “molecola-mascherina” in grado di fungere da schermo chimico per le nostre cellule e impedire così che l’organismo si infetti e si ammali di Covid.
Anche se ci vorranno ancora forse 2 anni per completare lo sviluppo del farmaco, tutto questo è destinato a diventare realtà.
La fase di studio, portata avanti da 3 gruppi di ricerca italiani (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Università Statale di Milano e Istituto Italiano di Tecnologia di Genova), si è conclusa positivamente e il prototipo è stato ora brevettato.
Gli aptameri e le proteine Ace2 e Spike
La “protagonista” dell’infezione da cui prende il via lo sviluppo del Covid è la proteina Spike del Sars-CoV-2. È proprio la Spike a unirsi alla proteina Ace2 delle cellule umane, consentendo al virus di entrare nell’organismo.
Il farmaco studiato dagli scienziati italiani è in grado di impedire questo processo, creando una sorta di ostacolo materiale al virus.
La molecola che crea questa barriera, tecnicamente, è un aptamero. Ovvero uno degli acidi nucleici, frammenti di dna, che la scienza ha iniziato a isolare nei primi anni Novanta del secolo scorso e che hanno la capacità di legarsi a siti specifici di una proteina. I ricercatori italiani, nell’arco di 12 mesi, ne hanno studiati con approccio bio-informatico milioni di miliardi, identificandone 2 adatti allo scopo.
I due aptametri -mascherina
“L’aptamero – spiega Vincenzo Lionetti, professore associato di Anestesiologia alla Scuola Superiore di Pisa che ha guidato uno dei 3 gruppi di ricerca in coordinamento con il docente di Farmacologia della Statale di Milano, Paolo Ciana, e il ricercatore senior dell’IIT, Angelo Reggiani – è un po’ come un cerotto su una pallina da ping-pong, una gomma da masticare nella toppa della chiave. Dei 2 che abbiamo individuato, uno di profilo particolarmente alto, che chiaramente avrà la precedenza se dovremo sceglierne uno solo”.
“L’interazione – prosegue Lionetti – si basa su un’affinità di legame di tipo chimico, rivolta a un residuo di amminoacido. E quando prende posto nella cellula rende impossibile l’interazione fisica con un particolare residuo della proteina virale. Trattandosi poi di un filamento di dna, non irrita il sistema immunitario, come invece farebbe una proteina. L’aptamero a dna, cioè, è un agente discreto, a bassi costi di produzione, che riduce le possibilità di reazioni allergiche o altri effetti collaterali. E il farmaco blocca il passaparola da una cellula all’altra, crea una sorta di alzheimer nel virus, evitando che lo tsunami virale determini un’infiammazione tale da provocare danni”.
Le varianti e la cura
Rispetto ad altri coronavirus, Sars-CoV-2 ha la capacità di legarsi alla proteina Ace2 dalle 10 alle 20 volte in più. Rispetto ai vaccini e ad altre cure, come i monoclonali, incentrati sul virus, che hanno comunque dimostrato la loro efficacia, lo studio ha cambiato prospettiva.
Spostando il ragionamento sulla porta d’entrata, è riuscito a individuare una soluzione a prova di varianti. La mascherina per le cellule appunto.
“Abbiamo concepito l’aptamero – ricorda Lionetti – fin dall’inizio come farmaco, ancor prima che arrivasse il vaccino, scegliendo di continuare a lavorare sulla porta d’accesso anche durante il bailamme del primo lockdown”.
La “mascherina” tiene fuori il virus che, essendo un parassita, muore
Le diverse mutazioni del virus non sono infatti mai intervenute sul meccanismo di entrata nella cellula, che si è basato sempre sullo stesso recettore all’interno dell’organismo umano.
Sulla base di questo ragionamento, la “mascherina per le cellule” potrà dunque risultare utile sia in forma preventiva, che come cura post infezione. Il virus, infatti, non riuscirà a trasmettersi alle cellule vicine a quella infetta e, in tal modo, potrà essere eliminato dal sistema immunitario. “Siccome il virus non vive di vita propria, ma è un parassita – ricorda Lionetti – per vivere deve entrare e proliferare in una cellula. E se resta fuori, muore”.
I tempi e i vantaggi degli aptameri
Il farmaco non sarà il primo a basarsi sugli aptameri.
Già nel 1998 si iniziò a studiare un prodotto a base di questi acidi nucleici per la cura della degenerazione maculare, il “Macugen”.
I tempi di sviluppo dei farmaci ad aptameri sono inferiori ad altri farmaci, visto che risultano tra l’altro meno tossici. Così come sarà più rapida la successiva produzione, essendo possibile la sintesi della molecola in modo chimico.
“Se tutto va bene – conclude Lionetti – in 16-24 mesi si può arrivare alla produzione. Intendo dire che questo risultato è possibile se troviamo un investitore che ci incoraggia. Ma i tempi potrebbero essere ancor più veloci se una casa farmaceutica si mostra interessata e rileva il brevetto. Altrimenti, il rischio può essere che anche questa, come altre ottime idee farmaceutiche italiane, cada nel dimenticatoio per mancanza di supporto industriale. Questa storia insegna comunque che la condivisione e la collaborazione sono sempre vincenti: chi lavora insieme ha sempre una marcia in più per trovare una soluzione, tanto più quando hai la pistola puntata alla tempia, come avvenuto col Covid”.
Alberto Minazzi