Per la prima volta, in Italia, è stato autorizzato il suicidio assistito.
Il Comitato Etico dell’Asl della regione Marche, infatti, ha deciso che nel caso di Marco, nome di fantasia di un cittadino tetraplegico costretto a letto da dieci anni, sono presenti i requisiti previsti dalla legge italiana per il fine vita assistito.
In sostanza, Marco ha una patologia irreversibile, la sua malattia lo sottopone a gravi sofferenze fisiche o psichiche, è pienamente in grado di prendere decisioni consapevoli e sopravvive solo grazie a trattamenti e cure estreme.
Queste quattro condizioni, sulla base di quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale sul caso caso di Jj Fabo, rendono il suicidio assistito non punibile e, dunque, autorizzabile.
Ma non si tratta di eutanasia, che non è prevista in Italia.
La differenza può sembrare sottile ma mentre nel caso del suicidio assistito, stanti le quattro condizioni riconosciute anche per Marco, la persona autonomamente decide e pone fine alla propria vita, l’eutanasia prevede che a farlo sia qualcun altro. Nel caso di Marco, un medico prescriverà così un farmaco e Marco lo assumerà schiacciando un pulsante che lo metterà in circolo per via endovenosa.
Sulla questione, si è aperto in Italia un dibattito.
Metropolitano.it ha chiesto per questo di far chiarezza sulla vicenda a Paolo Veronesi, professore ordinario di Diritto Costituzionale del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
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Professor Veronesi, cosa dice esattamente la sentenza della Corte del 22 novembre 2019 e come vede Lei questa prima decisione di applicare la sentenza
La sent. n. 242/2019 – resa nel noto“caso dj Fabo” (altrimenti detto “caso Marco Cappato”)–si esprime sul reato di aiuto al suicidio previsto all’art. 580 c.p., eliminando irrimediabilmente la possibilità di applicare la pena qui prevista in alcuni casi particolari (ma non in altri). In breve, la Corte costituzionale salva l’incriminazione dell’aiuto al suicidio a tutela degli incapaci e dei più fragili o vulnerabili, ma isola anche uno spazio per nulla angusto in cui quella vecchia disciplina – risalente al codice penale del 1930 –esprime significati ormai palesemente incostituzionali. La Corte afferma pertanto che chi sia affetto da una patologia irreversibile, causa di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, che sia sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, sia in condizioni di esprimere una decisione libera e consapevole e sia stato sottoposto (o gli sia stato almeno proposto) un percorso di terapie palliative (che può comunque sempre rifiutare), potrà ricorrere anche all’aiuto dei medici per farla finita. In casi come questo, afferma la Corte, è perciò costituzionalmente illegittimo impedire al paziente di chiedere un aiuto medico a morire, anche perché, in tale situazione, lo stesso paziente potrebbe decidere di farla finita rifiutando le cure – come previsto dalla legge n. 219/2017, frutto normativo di tanta giurisprudenza, anche di rango costituzionale– benché non accetti questa soluzione per le più varie ragioni (compresa la sua volontà o la sua paura di non prolungare inutilmente il momento finale della sua esistenza sottoponendosi a una sedazione profonda e continua). In tal modo, afferma la Corte, è anche possibile reagire ad alcuni effetti indesiderati della scienza medica, la quale è talvolta in grado di sottrarre al decesso alcuni pazienti in gravi condizioni, senza garantire loro la possibilità di vivere secondo i propri convincimenti o producendo gravissime sofferenze che incidono sul loro corpo o anche soltanto sulla loro psiche.
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Ma questa sentenza della Corte è immediatamente applicabile o esige il necessario intervento del legislatore?
La sentenza della Corte è autoapplicativa, tanto è vero che, nella sua seconda parte, è la stessa Consulta a definire una disciplina di massima da applicare nei casi che dovessero presentarsi in concreto, facendo perno su altre normative già predisposte dal legislatore (legge n. 219/2017 compresa). È una disciplina certamente perfettibile e meglio precisabile da un intervento chiarificatore del Parlamento, ma è la stessa Corte ad alludere al fatto che, in assenza e (in attesa) di un pronunciamento delle Camere, quella è la procedura da adottare. Prescrive pertanto che l’aiuto deve essere prestato da un medico del Servizio sanitario nazionale e non da altri, che la procedura potrà svolgersi solo in strutture pubbliche, che occorre l’intervento di un organo collegiale terzo che valuti le singole richieste, identificandolo nei Comitati etici territorialmente competenti, che il personale medico potrà sempre opporre la sua obiezione di coscienza. Quindi, al momento, è quella la procedura da adottare ed entro la quale superare, in modo controllato e scientificamente fondato, anche i dubbi derivanti da talune lacune di disciplina (ad esempio, quale farmaco utilizzare?). Lo prova del resto la giurisprudenza che si è prodotta al deflagrare del caso marchigiano coinvolgente il Sig. Mario (nome di fantasia): su richiesta del malato, i giudici sono intervenuti per chiarire che l’ASL – inerte da lungo tempo, nonostante le invocazioni del paziente – ha il dovere di dar seguito alla sua richiesta (peraltro reiterata), accertando l’esistenza di tutti i presupposti necessari per avviare l’aiuto medico al suicidio.
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La sentenza della Corte lascia aperti altri dubbi applicativi?
Senz’altro. Ad esempio, il concetto di trattamenti di sostegno vitale non è affatto chiaro come sembrerebbe di primo acchito. Lo è in talune situazioni estreme – si pensi a un malato costantemente collegato a un apparecchio di ventilazione o alimentazione artificiale – ma altre volte si palesano delle fattispecie meno nette. Di recente, nel “caso Trentini”, la giurisprudenza ha ad esempio ammesso che sia da ritenersi tale anche un trattamento farmacologico che, se interrotto, causerebbe un aggravio delle condizioni del malato, producendone infine la morte. Si tratta di un’estensione interpretativa a mio avviso del tutto ragionevole, sempre che sussistano tutte le altre condizioni isolate dalla sentenza n. 242. Esistono poi casi – come la stessa vicenda di dj-Fabo insegna – in cui il paziente non è costantemente collegato a macchine salvavita, ma solo episodicamente. Anche questa realtà rientra a mio avviso nella casistica individuata dalla Corte.
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Perché allora la Corte costituzionale non si è occupata di tutte queste variabili?
Perché non era tenuta a farlo. La Corte costituzionale, per i suoi giudizi, è vincolata alla domanda formulata dal giudice che promuove la quaestio di legittimità, il quale trae spunto dal caso che deve decidere e modella il suo atto di promovimento proprio sulla fisionomia del problema che è chiamato a decidere (e se così non facesse la Corte non potrebbe neppure esaminare la sua domanda). Nulla toglie che la Corte, sollecitata a rivedere questa o altre norme ad essa collegate, in ulteriori vicende riguardanti il fine vita,in situazioni parzialmente diverse, non possa spostare il limite da essa individuato un po’ più in là, creando ulteriori aperture.
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A cosa sta pensando, in particolare?
Ad esempio, all’art. 579 c.p., il quale punisce ancora con una sanzione davvero molto elevata l’omicidio del consenziente. Io credo che, nel caso di un paziente che non fosse in grado di compiere neppure l’ultimo gesto utile a provocare la propria morte – com’è richiesto nell’aiuto al suicidio – perché affetto da un paralisi totale o perché l’azione gli provoca sofferenze ancora più atroci o perché semplicemente intende che sia il personale specializzato ad assisterlo in questo delicatissimo momento della sua esistenza, sia del tutto ipocrita (uso le parole di un ex giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) non assisterlo anche con un aiuto diretto a farla finita, ovvero nel quadro di una vera e propria eutanasia attiva. Tra l’altro, si potrebbe trattare di un paziente in condizioni ancora più gravi di chi può già ora praticare il proprio suicidio assistito. Inoltre, in una sorta di eterogenesi dei fini, il timore di non poter più farla finita quando la malattia non consentirà neppure il minimo gesto utile in tal senso potrebbe indurre taluni ad anticipare la propria dipartita.
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Questo è l’oggetto del referendum per il quale l’Associazione Luca Coscioni ha raccolto le firme e che attende il giudizio di ammissibilità della Corte?
Si, ma ritengo che la formulazione del quesito referendario, sommata alla giurisprudenza a dir poco contorta che la Corte costituzionale ha elaborato in materia dell’ammissibilità dei referendum, difficilmente consentirà il via libera al referendum. Vedremo. In ogni caso, l’eventuale responso negativo della Corte non significherà che la modifica dell’art. 579 c.p. sia da ritenersi senz’altro costituzionalmente illegittima. Si tratta di due problemi diversi. Taluni effetti non si possono conseguire con il referendum, visti i paletti entro i quali esso si deve muovere, ma si potrebbero pienamente raggiungere se solo il legislatore facesse fino in fondo il suo mestiere o mettendo le Corte costituzionale nelle condizioni di intervenire (per quanto di sua competenza). E’ dal 2018 che la Corte ha sollecitato il Parlamento a intervenire proprio per disciplinare l’aiuto al suicidio medicalizzato (con l’ordinanza n. 207): non è successo nulla e la Corte è stata successivamente costretta a usare le “maniere forti”, pronunciando la sentenza n. 242/2019 ed evitando che una prerogativa di tale pregnanza venisse (ancora) conculcata.
Alberto Minazzi