Il centro trevigiano tira le somme della stagione all’Umana Reyer, ultima tappa di una carriera straordinaria. Un libro aperto sugli ultimi vent’anni di basket europeo, da Obradovic a Messina, da Kukoč al “mistero” Navarro
Chissà se si occupa ancora di pallavolo il tale che per primo incrociò un’imberbe Denis Marconato in quel della Ghirada venticinque anni fa. Avesse avuto un po’ più di fiuto, la nazionale di volley si sarebbe forse assicurata per vent’anni un centrale di livello internazionale. Per fortuna della pallacanestro italiana quel giorno la storia andò diversamente. «Avevo le spalle un po’ strette. Il medico aveva consigliato mia mamma di portarmi a fare dello sport. Nuoto o pallacanestro. Così andammo alla Ghirada. Non conoscevamo nessuno. Dopo aver girato un po’, incrociammo qualcuno che si occupava di volley. Ci disse di attendere un attimo, che sarebbe arrivato un allenatore. Nel frattempo era finito l’allenamento di basket. Lele Molin, attuale vice di Trinchieri a Cantù, mi vide e domandò subito a mia madre cosa facevamo lì. Mi chiese quanti anni avevo. Ne avevo tredici ed ero già un metro e ottanta. Mi prese sottobraccio e da quella volta non mi mollò più». Il resto è storia. Un argento olimpico ad Atene nel 2004, tre volte sul podio agli Europei (un primo, un secondo, un terzo posto). Un’Eurolega in bacheca. Quattro scudetti cuciti sul petto. Altre quattro coppe per club, tra Eurocup e Saporta. Parlare con Denis Marconato, che si è da poco lasciato alle spalle i playoff disputati con la maglia dell’Umana Reyer, è come interrogare l’enciclopedia del basket europeo degli ultimi venti anni.
IL BILANCIO DELLA STAGIONE
Dal punto di vista personale, qual è il bilancio della stagione da poco conclusa? «È stato un anno positivo. Mi sono messo in gioco, sono dovuto entrare in corsa e non era facile, specialmente in un gruppo con tanti elementi di qualità. Col passare del tempo ho trovato il giusto spazio e il mio ruolo all’interno della squadra».
A livello di squadra invece che anno è stato? «Anche qui tutto sommato positivo. Quando sono arrivato c’erano tante aspettative sulla squadra, tanta pressione. All’inizio non è stato facile. Poi col passare della stagione ci siamo ripresi e abbiamo conquistato i playoff, un traguardo importante».
Forse la cosa che è mancata di più è stata la continuità. Sei d’accordo? «A volte siamo andati bene. Altre volte meno. Una grande squadra gioca da tale sia contro le grandi che contro le piccole. Lo abbiamo fatto solo con le prime. Credo sia stato il nostro limite maggiore».
Hai giocato in alcune delle piazze più prestigiose d’Europa. Che impressione ti hanno fatto la Reyer e Venezia come ambiente? «Venivo dall’ultima esperienza di Cantù dove c’è tanto attaccamento alla squadra. E a Venezia ho trovato un contesto molto simile. Tanto entusiasmo, un palazzetto sempre pieno e appassionato, un presidente molto attento alla squadra. Ma la cosa che mi ha impressionato di più è il progetto del settore giovanile. L’idea di aggregare tutte le società del territorio attorno al nome Reyer è una cosa bellissima».
IL BASKET ITALIANO OGGI
Che giudizio generale dai dell’ultimo campionato di serie A? «Il livello complessivo è un po’ sceso. Ma allo stesso tempo sono venute fuori realtà che nessuno si attendeva. Come Roma, che sembrava dovesse sparire e poi ha sorpreso tutti facendo un signor campionato. Oppure Siena, dove nonostante il ridimensionamento, l’impianto di gioco, l’identità alla fine sono venute fuori. L’unica squadra che penso abbia reso al di sotto delle grandi aspettative è stata Milano».
Da cosa si capisce che il campionato deve crescere? «Uno degli indicatori è il fatto che per gli americani l’Italia non è più la prima scelta, ma preferiscono altri campionati. Negli ultimi anni si è persa un po’ di qualità diffusa».
Per contro dopo tanti anni abbiamo rivisto italiani in vetrina. L’ideale in vista degli Europei di settembre, non trovi? «Dopo la mia generazione, la Nazionale ha avuto un periodo di transizione. Adesso è il momento di Datome, Aradori, Hackett, Cinciarini. Penso che la nazionale possa fare solo bene. Soprattutto dopo una stagione in cui gli italiani sono stati determinanti. Sarà un grande stimolo per tutto il movimento».
BARCELLONA, IERI E DOMANI
Sei stato in Spagna nel momento culminante del movimento iberico, in pieno boom anche economico. Che differenze hai trovato al tuo ritorno in Italia? «In Spagna investivano molto, ma investivano anche bene. In quei quattro anni ho vissuto sempre campionati molto equilibrati. Non c’erano sono le quattro squadre che si giocavano il titolo. Quelle dietro erano tutte formazioni molto competitive. Un anno il Real, da primo in classifica, uscì ai quarti con Malaga, ottavo. Nello stesso periodo, in Italia, Siena vinceva a mani basse…»
“Più che un club” è il motto del Barcellona, dove hai giocato per tre stagioni. Cosa significa vestire la maglia blaugrana? «È stata un’esperienza stupenda. Entrare nel Barça è un po’ come essere in cima all’Olimpo. C’è un senso d’identità incredibile e tu stesso, anche provenendo da fuori, ti immedesimi completamente. E poi quando vesti la maglia del Barça, da quelle parti tutte le porte ti si spalancano».
Sei rimasto molto legato sia al club che alla città, giusto? «Sì perché a Barcellona ho preso casa. Spero un giorno di tornarci, anche professionalmente. Sono ancora in contatto con la società. Una volta che si è fatto parte del Barça si rimane legati come ad una famiglia».
DESTINAZIONE HALL OF FAME
Una carriera ancora in piena attività, ma già destinata alla hall of fame della pallacanestro italiana. Non solo vittorie, ma anche una longevità agonistica con pochi eguali. Se si mettessero insieme le presenze in serie A e quelle nella Liga ACB, otterremmo 721 gettoni totali (senza contare coppe e competizioni internazionali), ovvero il settimo giocatore di sempre davanti a Pittis, Marzorati e Bonamico nell’ordine. Non bastasse questo, Marconato può vantare un record tutto personale: è l’unico ad aver disputato quattro finali scudetto con quattro diverse squadre (Treviso, Milano, Siena, Cantù). Ha attraversato due epoche del basket europeo, ha esordito appena dopo la frantumazione degli stati baltici e jugoslavi; ha calcato il parquet prima e dopo la sentenza Bosman. Ha fatto in tempo a giocare insieme a Toni Kukoč («Rimane il compagno più forte con cui abbia mai giocato») ed è riuscito a marcare Arvidas Sabonis («Nessun avversario può essere paragonato a lui. Era semplicemente enorme, un’apertura di braccia infinita e mani fatate»).
Hai una carriera così lunga che c’è bisogno di aggiornare il tuo “ranking” personale. Chi è stato l’avversario più forte degli ultimi dieci anni? «Nikola Pekovic, l’ex centro montenegrino del Panathinaikos (attualmente nell’NBA in forza ai Minnesota Timberwolves). Un fenomeno».
Tra i compagni, facciamo un nome noi: “Re” Juan Carlos Navarro. «È un autentico mistero. Fondamentalmente è pigro. Non lavora con i pesi, perché teme che gli possano dare fastidio al tiro. L’atletica la fa controvoglia, il minimo indispensabile. Eppure in campo è imprendibile, velocissimo. Nonostante sia leggero, regge tutti i contatti, contro qualsiasi tipo di giocatore. Poi in attacco ti segna di destro, sinistro, contro tempo, rubandoti il tempo. Insomma fa quello che vuole. Inutile cercare di capire come sia migliorato, su cosa abbia lavorato in particolare per diventare così. Non c’è niente da dire. È semplicemente un fenomeno».
Anche fra gli allenatori non hai che l’imbarazzo della scelta. Cominciamo da Obradovic. «Tosto come nessun altro. Ti sfrutta fisicamente. È attentissimo agli aspetti tattici, alla squadra nel suo complesso, è uno stratega. Un aneddoto spiega tutto. Era il nostro tecnico ai tempi di Treviso. Giocavamo a Bologna contro la Virtus di Messina, in un finale tiratissimo. Bene, negli ultimi due time-out ci anticipa per filo e per segno quale sarebbe stata la soluzione della Virtus. Alla fine accade esattamente quello che ci aveva detto. Peccato che – nonostante tutto – nell’ultima azione subiamo la schiacciata al volo di Ginobili. Proprio come ce l’aveva descritta lui. Da rimanere senza parole».
Ma se devi vincere l’Eurolega, a chi ti affidi? «Scelgo Ettore Messina. Anche perché è italiano, ma non solo. È un allenatore nel senso più ampio del termine. Non solo è durissimo, ma svolge un lavoro a 360 gradi, gestisce tutti gli aspetti tecnici, anche quelli individuali. Non si occupa solo della prima squadra, ma cura ad uno ad uno ogni giocatore, ogni tecnico dello staff e del settore giovanile. È un “allenatore – formatore”. Tutte le cose che mi ha insegnato, me le ricordo una ad una. Ancora adesso, mentre faccio i miei esercizi individuali, ripeto mentalmente i suoi insegnamenti».
Hai imparato molto e dai migliori. Arriverà il momento in cui toccherà a te insegnare qualcosa? «Quando arriverà quel giorno non sarà per fare il dirigente. Non mi vedo dietro una scrivania. E forse nemmeno l’allenatore. Preferirei occuparmi dei giovani. Sono uno da tuta e scarpe da ginnastica, un animale da palestra. Quello è il mio habitat ideale».
Di Alessandro Tomasutti